Tra la mia perduta gente. Lettere e poesie di Michele Sabatino. Passano le stagioni, gli anni e nel gioco delle luci e delle ombre della vita maturano tante esperienze. L’uomo ha sempre da conoscere qualche cosa, in ogni luogo e in ogni era, come già espresso da chi ora scrive questa breve prefazione, in occasione della prima raccolta di «Poesie» di Michele Sabatino, pubblicate per i tipi dell’editrice “La Moderna” di Enna nell’anno 1994.
Con la seconda antologia, l’Autore ci racconta «la sua storia», unica, originale, nell’intreccio dell’esistenza umana, avvalendosi di un linguaggio semplice, lucido. Poi, lo stile originale, il valido contenuto, fanno della «poesia» di Michele Sabatino una tessera di riconosci¬mento davvero singolare. Parecchie volte il frutto delle esperienze può divenire un sostegno per la formazione della personalità, una testimonianza di valori e di sentimenti o di ingiustizie e sorprusi.
Il Sabatino attraverso la prosa, le lettere, ci svela emozioni e sentimenti, sogni e timori, attese e conflitti ulteriori, ci proietta nelle esperienze di un soggiorno romano e milanese, il suo vissuto dal profondo significato umano e sociale. Si ispira ad argomenti vari, da una voce al silenzio e alla notte che sembra svelare i misteri del tempo… Si sente come l’esule che cerca notizie della propria terra, del proprio destino, ama la patria, ascolta chi parla di patria…
Questo sentirsi e confessarsi stranieri in patria, guerriero che sprigiona forza per scacciare tormenti, errori commessi per non lasciarci andare in colpevole solitudine, animo irrequieto che incontra solo turbamento, quasi come navi smarrite nel mare di egoismi materiali conferma volontà di trovare il porto della luce. Questo esprime Michele Sabatino nei bei versi di «Null’altro»: «[…].
Siamo l’inizio e la fine, un lampo, un attimo e nulll’altro. Breve come il giorno e la notte, attimi, passati al tempo e alla polvere, istanti scalpiti tra le pietre ed erose dal vento. Siamo fragili sorrisi, immagini rapite, piccoli in mari lontani e tempestosi, quieti e minacciosi. […] fragranze travolte dalle intemperie. […]. Fulmini di fragile esistenza e null’altro».
Certo è che ognuno di questi componimenti ci richiama al pensiero a dir poco affascinante di Seneca, scrittore intramontabile, filosofo e intellettuale straordinario, che in tutta la sua opera descrive le inquietudini, il profondo malessere, indaga i «mali dell’uomo». Il senso della fuga del tempo e della «brevità della vita» percorre tutta la sua opera e vi cerca una via di salvezza. La «tranquillità dell’animo» è un lungo cammino, faticoso e doloroso ma alla fine conduce alla felicità.
«Ecco una cosa grandiosa: – scrive Seneca -avere la debolezza di un uomo e la tranquillità di un Dio». Altro tema che colpisce il lettore, è la rabbia e l’impotenza che l’Autore pronuncia contro «gli oppressori, i furbi, i latitanti, i politicanti di periferia e di prima linea, quelli che hanno condannato a miseria la mia terra, la mia città». Una terra senza speranza, dunque.
Per chi ci vive, per chi se ne va… Una radice di tristezza ne nasce, che florida su un terreno nativamente disposto a soffrire. Evoca al riguardo le parole memorabili pronunziate da Luigi Pirandello in occasione della morte di Giovanni Verga che Sabatino riporta alla fine del suo “Epilogo”: «[…] io sono nato in Sicilia – scrive Pirandello – e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte […]». Come non richiamare qui e condividere le impressioni esternate a seguito del «Viaggio in Sicilia» compiuto nel 1952 da don Primo Mazzolari (1890-1959), cattolico popolare impegnato nella questione sociale, e soprattutto da parroco contadino della Val Padana? Mazzolari visita le città di Palermo, Agrigento, Caltanissetta e Trapani, e pubblica cinque articoli su «Il Popolo» nel corso dello stesso anno.
Afferma, tra l’altro: «I siciliani furono quasi sempre obbligati a sognare il diritto invece di godere la giustizia, a comporre le idee invece di ordinare uomini e cose». «Di un popolo triste la leggenda è riuscita a fare un popolo festaiolo: di un popolo rassegnato un popolo indisciplinato e rivoltoso.
La sete di giustizia dei siciliani, spesso è vera arsura… Per colpa di chi? Non conta stabilire un ordine di responsabilità quando siamo tutti responsabili e urge rimediare più che colpire». «La terra siciliana è uno scrigno senza chiave. Se si aspetta che qualcuno (Governo, Regione, ecc.) prepari la chiave per aprirlo senza sforzo, la Sicilia rischierà di perdersi.
Penso che bisognerà spaccare la cassaforte, e al più presto: ne verrà fuori il pane per tutti i siciliani». «Il siciliano ha una nostalgia struggente e rifuggente. L’isola ammalia, ma il viverci è così duro, che una volta fuori, pur soffrendone, nessuno si volta indietro». «In Sicilia c’è terra e lavoro per tutti. E questa sarebbe una maniera di fare il ponte tra il Nord e il Sud». E oggi, cosa è cambiato in Sicilia rispetto a quel lontano anno 1952? Forse, i poeti, tracciano il percorso della speranza per una società così complessa e oscura come la nostra, segnano le tappe di un itinerario…
Attenti, sinceri, appassionati, sono sempre le sentinelle della notte, scegliendo un tono sapientemente provocatorio. L’ansia di conformismo, il male raffigurato dalla tv, l’indifferenza dei giovani, degli «amici» non più amici o comunque smarriti, abbattuti dal divenire delle cose, lo sviluppo mescolato con il progresso.
Capace di levare le maschere, di mettere a fuoco le ipocrisie dei «nostri rappresentanti» della polis, Michele Sabatino, vuole trasmetterci con la presente raccolta, quasi un testamento sulle sorti malandate della nostra «Isola», dell’Europa, «ma naturalmente è l’Europa di un siciliano», lasciando la sua impronta singolare. Infine, fanno eco e monito a tutti noi, a parer mio, le parole di Gesualdo Bufalino, il quale, in maniera cristallina annota in un suo «poscritto» del 1992: «Oggi, dopo mille stragi, dopo Falcone, dopo Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla fiducia più esangue.
E tuttavia, finché si vedranno folle di onesti sfilare per le vie di Palermo gridando la loro collera generosa e la loro volontà di riscatto, finché si sentiranno nel corpo dell’isola fermentare e crescere quegli anticorpi stupendi che sono la passione e la innocenza della gioventù; finché in una biblioteca mani febbrili sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un ’Italia, in un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora. Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno straccio di bandiera bianca». Roma, 25 giugno 2006
Giovanni Castaldo
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