giovedì , Ottobre 10 2024

L’indignazione stanca!

Passeggiando lungo le strade di una Berlino devastata dalla seconda guerra mondiale, un poeta dice all’angelo reincarnato di Wim Wenders: “La pace stanca!”.
Esiste, dunque, uno sfinimento sociale dinanzi alla reiterazione di eventi, un collettivo sentire che ci porterebbe oggi, di fronte alle valanghe incrociate della mediocrità politica e della volgarità mediatica, ad un pronunciamento estremo:

“L’indignazione stanca!”.
Una resa. Una generalizzata assuefazione all’ignominia che reca con sé il rischio di smarrire quel senso di disagio esistenziale che è, da sempre, il motore di tutti i mutamenti sociali. Rinunciare all’indignazione, sentimento nobile, pulsione che attiva i cuori e le menti, ma che non riesce più a scuotere questo paese stremato ed imbruttito, divenuto zimbello di innumerevoli testate giornalistiche straniere.
Dovremmo auspicare che la distruzione inneschi quel processo creativo necessario per chiudere un’epoca ed aprirne un’altra?
Ed ancora, dovremmo affidare ad uno schianto definitivo il nostro desiderio di rinascita?
Per delle strane coincidenze, negli ultimi giorni, fanghi e detriti hanno sotterrato dignità nazionale e madri abbracciate ai loro figli ed il governo si è sbriciolato insieme con la pompeiana domus dei gladiatori.
Cosa ha portato un paese così vivace, dotato di un patrimonio artistico e culturale unico al mondo, a consegnare la propria identità ed il proprio cervello ad uno stadio da elettroencefalogramma piatto?

Partendo dall’inizio del millennio e tirando le somme a decennio compiuto, dobbiamo individuare un punto emblematico che ci faccia comprendere perché ci sentiamo così profondamente traditi, perché le speranze si sono tradotte in altrettante cocenti delusioni. In questi dieci anni le classi dirigenti nazionali ed europee hanno rivelato una caduta di pensiero strategico e le élites culturali hanno avuto lo sguardo corto: innumerevoli progetti, poche le decisioni.
Probabilmente il mondo sociale contemporaneo non è più “pensabile”, le società sono troppo complesse per poter essere governate, il numero delle loro variabili si è centuplicato, pertanto, l’azione politica si gioca con performances giornaliere, senza un progetto univoco.
La politica si è impegnata fino allo spasimo per adattare la società all’economia seguendo le regole del neoliberalismo imperante. In Italia, in particolare, è morta la funzione gramsciana di pedagogia collettiva, hanno vinto la dittatura del profitto, l’affarismo, il decisionismo solo contro i deboli, il conformismo culturale, l’assoluta indifferenza ai diritti degli altri. Hanno stravinto il mito del successo personale, l’umiliazione pubblica della donna, il paternalismo bieco del “ci penso io”, la gara per la popolarità e la generica ostilità nei confronti dell’altro, dello “straniero” in senso lato.
La comunità e l’individuo si sono legati, più alla differenza ed all’alterità che all’appartenenza e all’identità. Tutti dentro la propria fortezza. Una cultura provinciale, questa, così profondamente radicata nel paese che nemmeno la discussa abolizione delle provincie riuscirà ad eliminare. Ma come può essere felice un’esistenza legata unicamente alla propria autoconservazione e quindi sottratta alle mutazioni, alle alterazioni ed alle meravigliose metamorfosi che può dare solo il confronto all’interno di una comunità divenuta, che piaccia o no, multiculturale.
La reputazione dell’Italia, storicamente fragile, è crollata dentro e fuori i confini nazionali e per ricostruirla all’estero non basterà portare in tour, quali ambasciatori della cultura italiana, i dimenticati Bronzi di Riace, come alcuni propongono.
Ne’ servirà il tour ad attirare nuove valanghe di turisti. È necessario, invece, sviluppare una strategia istituzionale di crescita della cultura, cultura vista ormai come zavorra, come peso che assorbe risorse, contro la quale si è scagliato l’anatema: “la cultura non fa cassa!”.
Che fare contro questa politica muscolare ed antidemocratica?
L’unica prospettiva che ci resta per reinventare la nostra democrazia è quella della militanza civica, della battaglia con l’arma delle idee.

Ancora una volta l’indignazione ci salverà, riscopriremo quella che Einaudi definiva “la bellezza della lotta”.
Disotterreremo la dignità nazionale incarnando i valori della resistenza civile, riconciliando il dato della sensibilità con quello dell’intelligenza, l’affettività con la ragione, la poesia e l’arte con la ricerca scientifica.
Fuori dalla fortezza insomma, con gli altri.

Nietta Bruno

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