Il nostro paese, tra gli innumerevoli obiettivi mancati, può permettersi il lusso di perdere le donne per riacquisire le femmine?
Dalle cupe cronache di Palazzo le donne non sono emerse più umiliate o più fragili, ma, di certo, si è rafforzata la loro distanza dalla politica e si è confermata in molte la scelta di far valere le specificità e le capacità di genere in altri campi ed in altro modo.
Le battaglie vinte negli ultimi anni, utilizzando più pragmatismo e meno ideologia, dimostrano che il femminismo non è stato archiviato ha solamente cambiato volto.
Tuttavia, dagli anni 60 ad oggi il numero delle donne impegnate in politica è rimasto invariato. Permane una questione di genere che minaccia le fondamenta della nostra democrazia e che ripropone il dibattito sul potere e sul riconoscimento della donna come risorsa.
Che la donna fosse una risorsa sociale ed economica lo aveva intuito John Fitzgerald Kennedy che nel 1961 istituì una “Commissione di indagine sullo stato delle donne americane” affidandone la presidenza a Eleonor Roosevelt.
J.F. Kennedy aveva individuato nella condizione della donna una opportunità di superamento della povertà e di modernizzazione della società americana, bloccata dal conformismo, fondata su una rigida separazione dei ruoli di genere e su una presunta felicità delle donne americane. Magistrale, a questo proposito, l’interpretazione di Kate Winslet in “Revolutionary Road” del regista Sam Mendes.
In Italia, in questi giorni, l’ISTAT ci ha consegnato due dati preoccupanti: cresce il numero delle donne che rinunciano alla ricerca di un lavoro e quello di donne che, a parità di qualifica e mansioni, percepiscono salari più bassi degli uomini. Ci risiamo!
Rischiamo nuovamente di essere confinate in una riserva come esseri in pericolo di estinzione e comunque da proteggere!
Il fragile neo-femminismo delle ultime generazioni dovrà individuare nuove modalità di sfida al predominio maschile.
Purtroppo la vitalità, l’entusiasmo ed il coraggio delle donne della mia generazione non sono passati in comodato alle generazioni successive. Probabilmente abbiamo sottovalutato l’importanza di creare le basi per il passaggio del testimone, forse abbiamo avuto troppa fretta nel riporre in naftalina le nostre vesti da femministe.
Sognavamo che, après – nous, le giovani donne, disponendo di un patrimonio di opportunità di carriera e di successo, divenissero, finalmente, portatrici delle nostre doti di cura e di un sentire più pulito nella dimensione pubblica.
Desideravamo che nel mondo si esprimessero con vigore l’autorevolezza, la libertà e l’intelligenza femminile.
Le vecchie categorie femministe: il potere, il rapporto tra privato e pubblico, l’emancipazione, contano poco ormai, bisogna ripensarle considerato che, per riflusso, stiamo tornando al modello tradizionale di femmina, moglie, madre, figlia, amante, meretrice.
Scricchiola anche l’innovativo messaggio della “Mulieris dignitatem“ di Giovanni Paolo II che attribuiva alle donne ruoli di uguale importanza.
Il recente, non adulatorio, decalogo di Umberto Veronesi, apparso sul Corriere della Sera, delinea l’immagine di una contemporanea donna bionica, decisionista, totalmente egemone, capace di affrontare il dolore psichico e fisico meglio dell’uomo, in armonia tra pubblico e privato ed in corsa verso l’autosufficienza riproduttiva.
È un sentire collettivo che le donne siano più forti degli uomini, vacillano l’identità e l’autostima maschili, l’uomo appare più esposto ai mali del tempo ed in preda ad un infantilismo narcisista che lo induce alla violenza o alla ricerca di un ruolo sociale meno impegnativo.
Non credo, tuttavia, che tutte le donne vadano nella direzione tracciata da Veronesi, molte hanno una visione non agonica dell’esistenza, un’idea meno belligerante del rapporto tra scienza e corpo femminile.
L’autosufficienza nella riproduzione determinerebbe la fine della relazione tra generi. Si ripropone, piuttosto, ma amplificato il tema del corpo della donna e della sottoutilizzazione delle competenze e delle energie femminili.
Volevamo che il corpo della donna irrompesse con tutta la sua dignità sulla scena pubblica della politica evitando, possibilmente, tacchi a spillo e arroganza.
Non è sopportabile che il corpo sia l’unico protagonista del rapporto tra donne e politica, sta scomparendo la soggettività femminile pensante, si stanno spegnendo le voci di chi nel passato ha ben ragionato sul corpo, sul potere e sulla sessualità raggiungendo il più importante degli obiettivi: fare le medesime cose degli uomini senza svendere l’essenza femminile, con la serenità di stare nella propria pelle, di non snaturarsi, ma di misurarsi e competere senza uscire da sé.
Cosa impedisce alle donne di pervenire ad un solidarismo vincente? La mancanza di consapevolezza di sé, del riconoscimento delle reciproche capacità e della volontà di successo, ma, soprattutto, l’ostinazione nell’utilizzare un olio nefasto che tutto blocca e rende vano: l’invidia.
Ripiegano le sorelle di genere su un privato rassicurante, sullo sguardo dall’uscio, sul pettegolo spazio esistenziale che si oppone alla cultura dello sguardo aperto sul mondo.
Costituiamoci: le donne non piacciono alle donne! Insospettisce perfino l’operato delle donne-simbolo spesso lasciate sole proprio dalle compagne di genere. Invano sono stati invocati patti trasversali ed alleanze tra donne.
Mi chiedo: chi terrà aperto il discorso sulle donne nella mia città (ad Enna) dopo la perdita di Marilina Liuzzo e di Milena Rutella?
Chi in Sicilia lotterà ancora per mobilitare le tante donne rinunciatarie? Chi porrà il problema della formazione politica delle giovani donne siciliane che contro il clientelismo politico potrebbero offrire una politica più onesta, più scrupolosa, meno aggressiva, più varia e progressista?
Ancora una domanda, l’ultima: “sognavamo, speravamo, volevamo” chi lotterà per trasformare questi tempi dall’imperfetto al presente?
Nietta Bruno