Manifestazione di Greenpeace a Roma contro il nucleare, sabato 24 marzo. Vivo in Sicilia, per il momento sto in Francia, non sono stata a Roma fisicamente, ma ero là con la testa e col cuore. Il mio argomento oggi è però “laterale”, non specifico e di ordine diverso dalla pura attualità e dal merito della questione. Sabato, tutti sono stati invitati a portare qualcosa di verde, un fazzoletto, una sciarpa, un berretto, una maglia, una bandiera. Dunque, un “mare” di verde. Nelle recenti manifestazioni del “Se non ora quando” l’invito cadeva su qualcosa di bianco e, anche qui un “mare”. Sul cammino a ritroso degli ultimi anni incontriamo il “Popolo Viola” e quello “Arcobaleno”.
Aldilà del messaggio specifico del colore, che di volta in volta può alludere all’ambiente, al lutto orientale, alla pacifica convivenza dei diversi o ad altro ancora – c’è uno spostamento, forte e volontario, dentro un’area simbolica da un certo momento in poi trascurata. Come ci fosse, nuova, l’urgenza di restituire al reale, attraverso la moltiplicazione operata dal simbolo, le sue valenze infinite oggi perdute. Come ci fosse bisogno, di fronte al bruto accadere dell’oggi, di una carica semantica più forte e più profonda, radicata in una dimensione più attinente allo spirituale che al materiale. Perfino qualcosa di sacro, o quanto meno magico, e rituale, in quel condurre (fiducia, fedeltà, fede) al luogo deputato il portato personale e tuttavia comune di un identico colore, come se da questo dipenda l’esito salvifico finale.
E non si tratta di colori che compongano logo di partito o bandiera, segni (non simboli) di appartenenza o ribellione (il rosso garibaldino, quello proletario). Messaggi di una comunicazione razionale (e per molti versi fallimentare) che qui si nega nel richiamo a un colore preso nella sua essenza primitiva, nella sua fisicità. Non a caso è un colore che si indossa e non si impugna come una bandiera. Non a caso è il corpo, intero, che lo veicola. Come a dire che la politica deve tornare a fare i conti con la concretezza misconosciuta dell’essere umano in quanto tale. Penso alla Body Art, alle analoghe istanze sottese. Altre aggregazioni vengono così suggerite, fondate sulla persona e la relazione di differenti ma eguali individui.
I giovani del ’68, del ’74, furono i primi a rinnegare etichette di partito e bandiere, ma il loro costituirsi per la prima volta in “Noi”, come dice Erri De Luca, sicuramente bastava alla forza di un’identità che non si smarriva nel variopinto naturale della vita quotidiana. E forse ciò che emerge dal voluto dilagare di un unico colore è anche il senso della perdita, la nostalgia di quel “Noi” che non esiste più. L’evocazione di un’aggregazione profonda, di fronte alla tragica dispersione della vita quotidiana, che nemmeno l’onnipresente Facebook riesce a compensare poi sul piano esistenziale.
Un’identificazione collettiva plurale però, che un po’ inquieta quelli della mia generazione (certo troppo libertaria) che ci avverte un fondo, un retrogusto di “massificazione”, come se ad un appiattimento non si potesse che rispondere con un altro appiattimento. Come fossero cambiate, irreversibilmente e pericolosamente, grammatica e sintassi della vita sociale.
Nel mare di verde, di bianco, di viola che invade una piazza, c’è anche il bisogno, forse la voluttà, di contarsi, vedersi e farsi vedere all’istante, percepirsi e farsi percepire a colpo d’occhio come forza compatta, potenza che dilaga – non servono a questo le divise degli eserciti in parata? Nell’epoca della pura visibilità e del predominio dell’immagine, non c’è infine quel compiacimento estetico che nasce dalla consapevolezza di essere contemporaneamente attori e spettatori di un reality? Vivi e ti guardi già su youtube. Fai parte di una performance che sarà registrata nel grande archivio della storia. Come le migliaia di nudi negli scatti colossali di Spencer Tunick.
Cinzia Farina
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