Che avrebbero dovuto adeguarsi ad una nuova misurazione del tempo lo avevano intuito gli studenti sessantottini, definiti polemicamente “figli dei borghesi” da Pasolini. Scorreva il loro tempo e trovava la sua unità di misura nella ricerca di una felicità pubblica, nell’esigenza di voltare le pagine della storia per trascrivere, sotto la spinta di forti motivazioni morali, un tempo condiviso, agito con fede cieca nel dogma del cambiamento.
Non c’era tempo per sdraiarsi sui lettini degli psicanalisti, i “ragazzini-salva-mondo” procedevano in tanti, compatti, con un acuto senso di liberazione, esorcizzando, così, il sistema di relazioni umane ed economiche che il consumismo stava già tessendo.
La folla dei giovani sulle strade africane di oggi evoca, con aspetti più violenti e più drammatici, quell’ansia di liberazione.
Ma si è davvero liberi da giovani nel cammino della rivolta o si ripetono cliché imposti da altri?
Su questo interrogativo hanno trovato il loro impianto il revisionismo ed il tentativo di archiviazione di quegli anni perfino per opera dei protagonisti che sentono il sessantotto come una sconfitta e si sono consegnati alla storia come i “rivoluzionari del giorno dopo”.
Ma, sebbene nel nostro paese sia stata sepolta e dichiarata impronunciabile la parola “nostalgia”, essa sopravvive in molti con forza. Nostalgia dell’irrequietezza, del coraggio di dibattere e di opporsi, nostalgia delle tensioni culturali.
E’ una beffa: tutto quello che abbiamo odiato oggi ci pervade!
E’ il tempo di internet, un tempo accelerato ed umanamente mortificante che permette di avere da casa informazioni e notizie su movimenti ed idee, ma che ha annientato l’ottima pratica del confronto, della discussione, conclamando la nascita di un neo-individualismo devastante.
E’ il tempo che ha prodotto la generazione invisibile e disincantata del duemila, che ha portato in noi tutti la sfiducia che il mondo, ormai, possa mutare.
E’ il tempo della deriva.
E’ così che inizia la sopravvivenza e trionfa il non-vissuto, il tempo oppiato.
A mano a mano che il niente vince assistiamo all’agonia dell’angelo custode del tempo, quello che fino a qualche decennio fa ci proteggeva dall’incedere gigantesco della storia e ci rendeva protagonisti di essa.
Tutto ciò sta accadendo nel silenzio complice degli intellettuali, detentori del sapere critico che in Italia, perduta la loro innocenza, si sono trasformati in cortigiani.
Auspichiamo il ritorno dell’intellettuale settecentesco, alfiere delle riforme, portatore di pensieri forti e di valori. E’ indispensabile l’esistenza di uomini di cultura impegnati nella produzione di riforme, che garantiscano il sano intreccio tra politica e cultura e ci restituiscano l’infungibilità dei benefici immateriali della cultura, forse poco misurabili, ma imprescindibili.
Fuori dai nostri confini il mondo va avanti, elaborando linguaggi e disegnando stili di vita. Nel nostro paese sembra quasi impossibile costruire un tessuto culturale di riferimento, dovremmo iniziare, ma non goffamente, ad inventare una nuova cultura, a trovare la parola chiave per sbloccare questa immobilità, per uscire dall’assedio. Tutto questo richiede tempo.
Cambia il mondo ad una velocità travolgente e solo chi non vuol vedere rimane ancorato a vecchi formule, a vecchi schieramenti.
Bisogna iniziare subito considerato che la cultura esiste nel momento in cui se ne sta parlando.
Fortunatamente in tutti noi è insepolta la consapevolezza di un destino superiore, dell’appartenenza ad una stirpe indomita che custodisce il segreto del recupero della dignità del suo tempo, un tempo mite e salvifico da scandire con le lancette dell’orologio biologico, un tempo che confermi l’umana, irrinunciabile necessità di “vivere con calma” come diceva mia zia Cocò.
Nietta Bruno
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