Sul fatto che sui referendum del 12 e 13 giugno dello scorso anno 2011 ci sia stata poca informazione, nonostante gli stessi siano andati a buon fine, si registra una diffusa, se non unanime, convinzione. Medesima convinzione si registra sul fatto che dei quattro quesiti quelli relativi alla questione “acqua” hanno fatto da locomotiva.
Ora, senza entrare nel merito delle valutazioni politiche e sociologiche sottese all’onda emotiva che ha trascinato come uno tsunami il corpo elettorale italiano, il quesito che agli occhi dei più attenti rasenta il bluff , soprattutto dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 62 del 07/03/2012, depositata lo scorso 21/03/2012, è proprio quello col quale si è abrogata la normativa che disciplinava la gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica, tra i quali rientra il servizio idrico integrato.
I referendari, infatti, avevano già maturato la prima delusione allorquando la Corte Costituzionale con sentenza n. 24/2011, nel contesto dell’esame preventivo in ordine all’ammissibilità del quesito n. 1, referendum n. 149, impropriamente classificato come “referendum contro la privatizzazione dell’acqua”, si era così espressa: “Nel caso in esame, all’abrogazione dell’art. 23-bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (reviviscenza, del resto, costantemente esclusa in simili ipotesi sia dalla giurisprudenza di questa Corte – sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997 –, sia da quella della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato); dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (come si è visto, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica (…)”. Ciò significa che prima la norma abrogata dal referendum obbligava l’Ente locale ad affidarsi al mercato per la gestione del servizio, adesso viene meno tale obbligo, ma rimane comunque la necessità di optare per un modello di gestione che il medesimo Ente locale ritiene più idoneo (gestione diretta, gestione in house, affidamento esterno mediante gara, affidamento a società mista) sulla base di valutazioni che risentono della normativa e dei principi immanenti nell’ordinamento comunitario.
Appare evidente, allora, come, nella vigenza dei principi comunitari, l’abrogazione dell’articolo 23-bis non ha centrato l’obiettivo che i referendari si erano proposti. La vacatio iuris che si è venuta a creare per effetto dell’abrogazione della disciplina dei servizi pubblici di rilevanza economica trova infatti la sua naturale rete di contenimento legislativa proprio nelle disposizioni contenute nel Trattato della Comunità Europea e più precisamente nell’articolo 86, paragrafo 2, trasfuso nell’articolo 106 del TFUE. La norma in parola stabilisce che “Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”. Peraltro, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 325 del 2010, aveva già espressamente escluso che l’art. 23-bis costituisse applicazione necessitata del diritto dell’Unione Europea ed aveva affermato che esso integra solo “una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare” il comma 1° dell’art. 117 Cost. In detta sentenza viene precisato che l’introduzione, attraverso il suddetto art. 23-bis, di regole concorrenziali (come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici) più rigorose di quelle minime richieste dal diritto dell’Unione europea non è imposta dall’ordinamento comunitario “e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost. […], ma neppure si pone in contrasto […] con la […] normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri”. In sostanza, secondo il Giudice delle leggi, il diritto comunitario preferisce non prendere posizione a favore di uno strumento “pro-concorrenza” nella gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica.
La seconda delusione per i referendari è arrivata con la citata sentenza n. 62/2012 con la quale la Corte Costituzionale annulla la legge della Regione Puglia n. 11/2011 in forza della quale il servizio idrico integrato della Puglia viene affidato ad un’unica azienda pubblica regionale denominata “Acquedotto Pugliese (AQP)”. In sostanza, il legislatore regionale, animato anche dall’opera d’incoraggiamento che il Presidente Vendola non ha certo lesinato su una questione a lui tanto cara, ha ritenuto di potere regionalizzare la gestione del servizio idrico integrato non solo attraverso l’individuazione dell’Autorità d’ambito nella persona giuridica del citato A.Q.P., ma anche imponendo una gestione diretta del servizio in capo alla medesima Autorità.
Su tale scelta è calata la scure del Giudice delle leggi secondo cui “…alla legge regionale spetta soltanto disporre l’attribuzione delle funzioni delle soppresse Autorità d’ambito territoriale ottimale (AATO), nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, e non spetta, di conseguenza, provvedere direttamente all’esercizio di tali funzioni affidando la gestione ad un soggetto determinato. Da ciò deriva, in particolare, che, in base alla normativa statale, la legge regionale deve limitarsi ad individuare l’ente o il soggetto che eserciti le competenze già spettanti all’AATO e, quindi, anche la competenza di deliberare la forma di gestione del servizio idrico integrato e di aggiudicare la gestione di detto servizio”.
Orbene, la Corte Costituzionale non censura la gestione diretta del servizio idrico integrato in quanto tale, ma si limita ad evidenziare che il potere di scelta di tale modello di gestione non può essere stabilito con legge regionale perché in violazione di prerogative esclusive dello Stato in materia di tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente. A seguito della programmata soppressione delle precedenti Autorità d’ambito per la gestione dei servizi pubblici locali in materia di servizi idrici ed in materia di raccolta e gestione dei rifiuti alle Regioni è stata solamente affidata la competenza di individuare i livelli istituzionali più idonei in capo ai quali affidare la titolarità delle relative funzioni e non altro. La scelta in ordine alle modalità di affidamento del servizio idrico integrato (gestione diretta, gestione attraverso aziende speciali, gara pubblica, in housing e gestione con società mista pubblico-privata) rimane di tipo amministrativo ed affidata alla cura dell’individuata nuova Autorità d’ambito. Peraltro, in una nota diffusa dall’ANCI all’indomani dell’esito referendario veniva rilevato che, “I Comuni sono investiti di una nuova “libertà responsabile”, che responsabilmente utilizzeranno e del cui utilizzo saranno chiamati a rispondere”. Dunque, “nessuna controrivoluzione, ma semplicemente un ritorno alle ordinarie regole del diritto comunitario” (Luca Manassero).
L’indiscussa spettanza allo Stato della facoltà di disporre la soppressione delle A.A.T.O. (si veda Corte Cost. sent. n. 128/2011) non significa che alle Regioni, che pure godono di una potestà legislativa concorrente, sia vietato qualsiasi intervento al riguardo, atteso che la medesima norma prevede un’ampia sfera di discrezionalità in materia di moduli organizzativi più adeguati a garantire l’efficienza del servizio idrico integrato. Tuttavia, tale discrezionalità non può spingersi fino al punto di alterare le regole di funzionamento del mercato e quindi i livelli di tutela della concorrenza fissati dalla legislazione nazionale. Si tratta infatti di una operazione normativa da ritenersi in sé non consentita, in quanto direttamente incidente su materia riservata alla legislazione statale, rispetto alla quale la legislazione regionale può solo fungere da strumento di ampliamento del livello della tutela del bene protetto e non – all’inverso, come nel caso qui in esame – quale espediente dichiaratamente volto ad introdurre una restrizione indifferenziata del mercato concorrenziale in un settore la cui rilevanza economica è pacifica (si veda Corte Cost. sent. n. 26/2011).
Più tollerabile, verosimilmente, sarebbe un intervento legislativo delle Regioni in settori ritenuti di “confine”, come quelli inerenti i servizi sociali e sanitari integrati, in cui la pervasività della materia della concorrenza arretra, come affermato anche dalla Corte di Giustizia Europea nelle cause C-59/00 Bent Mousten Vestergaard e C_ 264/03 Commissione contro Francia.
In pratica il legislatore pugliese ha commesso l’errore di voler imporre con “legge provvedimento” un unico modello di gestione del servizio idrico integrato attraverso una gestione totalmente pubblica. Se riflettiamo, è lo stesso errore, al contrario, che il legislatore statale dell’abrogato art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 aveva commesso con l’introduzione della gara pubblica quale modello obbligatorio di gestione dei servizi pubblici locali. Siamo infatti in presenza di due modelli estremi, quello statale pro-concorrenza “spazzato” dal corpo elettorale attraverso il referendum (ed incredibilmente rilanciato per tutti i SS.PP.LL., ad esclusione del solo servizio idrico integrato, dalla nuova legislazione Monti) e quello della Regione Puglia pro-Stato oggi “spazzato” dalla Corte Costituzionale.
L’insegnamento che si ricava da questi eventi di politica pubblica è che in tempi di instabilità istituzionale, gli estremismi non pagano, né quando questi provengono dallo Stato né, tanto meno, quando questi provengono dalle Regioni. In tale contesto, vale la pena riprendere l’affermazione di Norberto Bobbio, mutuata dall’omonimo titolo di una delle sue tante pubblicazioni: “Né con Marx né contro di Marx”.
Massimo Greco
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