martedì , Ottobre 15 2024

“Gabbie” by Gianpio Cirlo

Gianpio Cirlo “Gabbie” è al suo secondo libro. Come lo presenterebbe ai lettori?
Lo presenterei esattamente con le stesse parole della quarta di copertina. Gabbie è un libro che si dipana in 25 racconti piuttosto diversi l’uno dall’altro. Differenti nello stile di scrittura. Differenti nell’ambientazione. Differenti soprattutto nell’atmosfera in cui immergono il lettore. Quello che li accomuna tutti, da cui appunto il titolo della raccolta, è la gabbia in cui i protagonisti sembrano essersi rinchiusi.
“Abituati alla morte e non avrai problemi neppure nel provocarla. Abituati all’amore e ne perderai l’incanto. Abituati a qualunque cosa e ti perderai in un bicchiere.”
Che sia il surreale colloquio con se stesso di un insonne che aspetta invano l’alba in una notte destinata a protrarsi per sempre o il monologo di un fantasma che non sa accettare il fatto che la moglie, ancora in vita, lo stia dimenticando, che siano rappresentate da un divano da cui è impossibile scendere, da una galea pirata perduta nell’oceano o dalla volontà di un uomo di non fare assolutamente nulla per il resto dei propri giorni, le gabbie che imprigionano i protagonisti di questi racconti non precludono solo la possibilità d’uscita, ma anche quella d’entrata. Rappresentano una scelta di vita. E una scelta di morte. Perché se il peggio può accadere, accade.
Gabbie. Fatte di sesso. Di liquore. Di attese nell’anticamera dell’inferno.
Gabbie. Dove lupo e agnello si fissano inebetiti.
“Non vissero felici. Non vissero contenti. Ma, soprattutto, non vissero per sempre.”


Molti suoi racconti contengono storie brutali. Che funzione ha la violenza nel suo libro?
R. La violenza ha il ruolo di tradurre in azioni i sentimenti dei protagonisti. Sentimenti di esseri umani chiusi in gabbia, che, al pari di ogni altra razza animale non possono che reagire alla prigionia con istinto ed aggressività. I protagonisti di questi racconti sono quasi sempre uomini all’ultima spiaggia, uomini sull’orlo del baratro che cercano di dare un senso alla propria esistenza. Lo fanno con forza, violentemente, come se fosse l’ultima azione che debbano compiere in vita, cosa che spesso accade.
La violenza è affascinante. La morte è affascinante. Nella vita reale ci provocano repulsione e terrore, ed è giusto sia così. Ma quando prima di andare a letto accendiamo la luce sul comodino per leggere qualche pagina prima di addormentarci, è bello immergersi nel proibito, nelle paure più profonde, nei nostri lati oscuri, in quello che in società non possiamo e non dobbiamo far emergere.

E nella società?
R. La stessa funzione, solo che in questo caso la teniamo a bada e cerchiamo a tutti i costi di nasconderla, per fortuna.
Tuttavia credo che la società sia intrisa di violenza. Non tanto di quella fisica, che penso sia messa in atto quasi esclusivamente dai criminali o i potenziali criminali, quanto di quella mentale. L’odio intenso che noi tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita. Il rancore, la rabbia, il desiderio di vendetta. Sentimenti che sono ben più brutali dell’aggressione fisica, perché esenti dalla caratteristica liberatoria di quest’ultima.
Anche la disperazione è violenza. Quella che si può tradurre fisicamente nel suicidio, che è l’atto violento per antonomasia, perché contro natura, perché avverso all’istinto di sopravvivenza intrinseco dell’uomo.
Nella società non vogliamo mai parlare di cose come il suicidio. Solo il nome ci fa accapponare la pelle. Ma dietro questa parola c’è sempre un vortice di pensieri e sentimenti incredibili, di soprusi auto inflitti alla propria mente, che credo siano interessanti da analizzare.
In società la violenza va condannata, ogni decesso evitabile va evitato. Bisogna parlare d’amore, in tutte le sue forme, e bisogna cercare di metterlo in atto. Ma quando siamo soli, sempre alla fievole luce di quel lume sul comodino, immergiamoci in quello che non vogliamo sapere, in quello di cui è, giustamente, scomodo parlare. Tanto nessuno ci vede.

A quale autore o genere letterario si ispira?
R. Non mi ispiro a nessuno in particolare, anche se talvolta, rileggendo i miei racconti, noto influenze degli autori di cui ho letto tutto ciò che c’era in commercio durante gli anni dell’adolescenza: gli eccessi di Charles Bukowski, il cinismo di Chuck Palahniuk e mi piace pensare che ci si possa trovare almeno un pizzico della maestria di quello che reputo il più grande romanziere contemporaneo, non tanto per le storie che inventa quanto per la pura abilità scrittoria, Stephen King.
Ora sono passato alle opere di David Foster Wallace, un uomo che reputo un genio e che faccio molta fatica a capire fino in fondo, sarebbe bello se un giorno potessi ispirarmi a lui, ma dubito che diventerò mai così intelligente…
Quanto al genere di riferimento potrei citarli tutti. Ogni racconto di Gabbie appartiene a un genere diverso, nello stile e nelle atmosfere, si va da un racconto puramente horror ad una storia d’amore, dal genere teatrale a quello fantascientifico, passando per l’epistolare. C’è addirittura una storia di pirati.
Comunque qualcuno ha detto che “questo libro graffia come se fosse letto da Tom Waits”, ed è una definizione che mi piace molto.

Le gabbie come metafora dell’esistenza?
R. Esattamente. Le gabbie rappresentano le esistenze cui sono costretti i protagonisti. Gabbie che si sono costruiti da soli e da cui non possono o non vogliono uscire. In questo libro le singole caratteristiche dei personaggi sono talmente evidenziate ed estremizzate da raffigurare una vera e propria cella. Possono essere rappresentate dai più classici vizi come il fumo o l’alcool, ma anche da disturbi come l’insonnia, di cui il protagonista non è colpevole, ma cui dà tanta importanza da farla diventare una prigione da cui non uscirà mai più. Poi ci sono le gabbie più classiche, rappresentate dai sentimenti: l’amore, l’odio, la vendetta, la passione sessuale, la disperazione.
Cose che nel bene e nel male sono presenti nelle esistenze di ogni persona, ma che qui vengono ingrandite al punto di sembrare surreali.

E quali sono le sue “gabbie”?
R. Credo che la mia gabbia sia l’eccesso. Non so prendere le cose per quello che sono, le porto sempre all’eccesso.
Ho il vizio del fumo, ma non è tanto questo a rappresentare una gabbia, quanto il volerci vedere della poesia. E ce la vedo!
Se mi innamoro di una donna sarei pronto a morire in nome di questo sentimento, può sembrare una cosa nobile, ma sarei pronto a morire anche per un goal della mi squadra del cuore se sto guardando una partita, ed è molto meno nobile.
Il problema è che è un atteggiamento che ho nei confronti di ogni cosa. Nel momento in cui vivo una determinata situazione o sentimento, questo diventa il nucleo cui ruota intorno la mia vita.
Mi succede con l’amore, col dolore, con la sigaretta, col sesso, col calcio, con l’alcool e con qualunque cosa mi piaccia più che poco, ma d’altronde ci ho scritto un libro.

Ci invii anche qualche notizia su di lei
Cirlo Gianpio nasce a Milano nel 1983 da genitori emigrati dal Molise in cerca di lavoro.
Negli anni dell’adolescenza si divide tra la scuola e diversi lavori nel tempo libero, principalmente in un’officina di automobili, e nel 2002 si diploma come perito chimico e trova impiego come conduttore di impianti chimici in un’azienda farmaceutica nella provincia sud della metropoli.
Attualmente è ancora impiegato nella medesima azienda e vive a Casarile, un piccolo paese a metà strada tra Milano e Pavia.
Fin dall’infanzia è appassionato di letteratura e fumetti e all’età di 21 anni pubblica il suo primo libro di racconti, “Storie dal fondo del bicchiere”, con una piccola casa editrice milanese.
La sua seconda passione è la musica, ha studiato per anni canto jazz e militato in diverse formazioni musicali, la più celebre e recente delle quali è il Trio Suburbio (www.myspace.com/triosuburbio), che si esibiva in diversi locali della Lombardia con un repertorio di cover e pezzi propri di genere blues-swing e completamente in italiano.
Ama lo sport, in special modo il pugilato e il calcio, che pratica a livello amatoriale affiancato a una regolare attività in palestra.
Dopo la pubblicazione del suo primo libro, che conteneva 15 racconti quasi tutti scritti in età adolescenziale, ha continuato a scrivere saltuariamente e soprattutto a leggere, maturando e perfezionando il proprio stile, fino alla pubblicazione del suo secondo libro, “Gabbie” con la casa editrice siciliana Nulla Die.


Intervista di Antonella Santarelli

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