Non è il diario di un viaggio. Cioè, è anche il diario di un viaggio, ma non solo. E non è una raccolta di rimembranze o un romanzo di formazione, ma è anche queste cose secondo un meccanismo di contaminazione che rende ‘Un pò come Giufà’, nello stesso tempo, un po’ diario, un po’ sfogo, un pò affabulazione pura, e molto cronaca di una auto-educazione e della scoperta di nuovi valori e nuove realtà.
Dico subito che sul libro di Angelo Maddalena, scrittore emergente è nato e vive a Pietraperzia, non sarò obiettivo, e per due motivi.
Il primo è che Angelo ho avuto modo di conoscerlo e di frequentarlo personalmente. Con lui ho intavolato un lungo dialogo che ha divagato tra argomenti diversissimi: dal locale mercato editoriale, al significato di una povertà volontaria e consapevole, dalle letture più fruttuose per comprendere e alimentare il senso della narrazione, alle contraddizioni della società nella quale viviamo.
Quello di cui abbiamo parlato è, in gran parte, anche dentro il suo romanzo, o meglio, il suo racconto di un viaggio all’antica, che secondo me dovrebbe essere il vero titolo, mentre Un po’ come Giufà possiede maggiormente il carattere di sottotitolo, perché ogni siciliano sa che Giufà non rappresenta solo una figura della fantasia popolare (una maschera nel senso ludico della parola, ma stranamente mai rappresentata nelle occasioni durante le quali è usuale e consono mascherarsi), ma anche il paradigma di un modo di vivere libero e scanzonato, disincantato e incantato al tempo stesso, degli sciocchi sapienti, degli idioti geniali.
Il secondo motivo, in merito al quale sarò più sintetico ma non perché lo giudichi meno importante del primo, è che Antonio – alter ego di Angelo e protagonista del romanzo – racconta di luoghi vicini, geograficamente e culturalmente, a quelli nei quali io trascorro la mia vita. E li racconta con un linguaggio che mi è familiare per averlo udito parlare da persone, molti dei quali amici, cosi quali condivido l’esistenza in questo piccolo lembo della Sicilia centrale.
Giufà è perfetta chiave interpretativa del narrare di Antonio, che descrive il suo viaggio alla volta di Barcellona per raggiungere un amore che non sa se sia veramente amore. Senza denaro, senza itinerario, senza programmi, senza tappe determinate, in balia della disponibilità e della cortesia di camionisti dal passato misterioso e dal futuro lontano, lontanissimo, lì in fondo all’autostrada.
Il viaggio reale di Antonio, così tormentato e incerto, si confonde col lungo viaggio nella memoria, alla riscoperta di episodi che rivelano l’autore e la sua Terra, che è anche la mia Terra. Non Terra da cartolina o da manifesto, non immagine stereotipata di luoghi amari ed emigrazione, di violenza ed eroica resistenza alla mafia; bensì rappresentazione di un quotidiano fatto di impegno in costante maturazione, ma anche di liti di quartiere, di disagio sociale e di partite di pallone, di insegnamenti parentali accettati e rifiutati, di morti violente e di esperienze ingenue e di passeggiate serale lungo la statale dove si svolge il passio.
Il periodo di studio passato a Milano costituisce il punto di riferimento costante della affabulazione di Antonio. Esso rappresenta il traguardo di una aspirazione e, al contempo, un punto di partenza, la soluzione di continuità che gli apre la visione di un mondo nuovo, quello vissuto e sofferto dai perseguitati e diseredati, ben diverso da quello iconografico e sapientemente falso dei mass media.
Per questo vedo ‘Un po’ come Giufà’ come qualcosa di ben diverso da un reportage di viaggio stracolmo di memoria. Antonio/Angelo non racconta se stesso, non parla del proprio ombelico; parla del mondo cha ha percepito in passato e di come questa percezione sia mutata in ragione di una consapevolezza accresciuta e sofferta. E poi racconta di un amore, del desiderio di riappropriarsi del proprio passato e di non rinnegare le proprie tradizioni la storia della sua Terra, anche se è stata storia di sofferenza e di soperchieria.
Siamo legati al nostro passato. Nostro malgrado. Il cambiamento non può discendere dall’oblio e dalla rimozione.
Recensione di Mauro Mirci