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L’insediamento rurale nella “terra Trayne” tra Medioevo ed Età moderna

Case rurali e masserie s’inseriscono ancora oggi in maniera armonica nella “terra Trayne”, antico territorio rurale di quest’importante centro montano del Val Demone in età medievale.
Tali strutture, edificate fin dal passato in siti accuratamente scelti, in relazione alla vicinanza ai terreni da coltivare, alla presenza d’acqua (sorgenti, torrenti o fiumi) o lungo il passaggio di trazzere, da abitazioni monocellulari si sono trasformate in abitazioni costituite da più ambienti, fino ad ampliarsi in piccoli centri, successivamente abbandonati o ingranditisi in villaggi o casali. L’uomo, sin dalla preistoria, è ritornato in tali siti più volte, poiché erano poche le località che offrivano adeguate condizioni per un insediamento umano stabile.
Se nella Sicilia bizantina prendono slancio e si diffondono i siti rupestri scavati nella roccia, i quali rappresentano una tipologia d’insediamento non soltanto alternativo, ma un fenomeno legato a motivazioni d’ordine economico e di sicurezza, per tutto il Medioevo, ed anche oltre, la casa rurale rimane costituita da una costruzione del tipo protostorica, il cosiddetto “pagliaio” o “capanna-pagliaio” che, pur con varianti nella forma e nelle dimensioni, risulta vicina al “grubì” maghrebino, secondo una tipologia diffusa in tutta l’area mediterranea per un lungo spazio di tempo.
Su di un basamento realizzato con pietrame posto “a secco”, senza ricorso a materiale coesivo, veniva alzata una costruzione fatta di tronchi d’albero che reggevano un’intelaiatura di paglia e fogliame impastati con fanghiglia. Tale tipo di ricovero, costituito da un unico vano a pianta circolare ma anche ovale o quadrangolare e con tetto conico, riusciva ad accogliere un’intera famiglia, offrendo riparo dalle intemperie o dal caldo e, come negli insediamenti paleolitici, si presentava privo di linee parallele, angoli retti o simmetrie. La larghezza della muratura faceva sì che l’ambiente interno rimanesse fresco in estate e tiepido in inverno.
Tra le strutture precarie, si menziona la cosiddetta “loggia”, il cui termine deriva dal germanico “laubja”, ricovero rudimentale realizzato con pietrame a secco, simile al pagliaio, situato solitamente nell’ambito dei vigneti.
“Pagliari”, “Pagliaro” e “Pagliarazzi” sono i riscontri che si possono osservare nella toponomastica locale, i quali starebbero ad indicare la presenza di capanne caratteristiche di questi ambienti. Ancora, sul finire del Medioevo, nelle Foreste di Troina viene attestata la realizzazione di “mandre, pagliara e logge di ruvoli”, e tale tipologia costruttiva rimane in tutta la Sicilia fino allo scorso secolo.
L’evoluzione del pagliaio e di altre strutture precarie, rispetto alla casa in muratura e con il tetto costituito da travature in legno e tegole, non avviene nel medesimo tempo e per tutte le tipologie di fabbricati; per “muratura” si dovranno sempre intendere costruzioni il più delle volte fatiscenti, approntate alla buona, e tale caratteristica doveva avere il cosiddetto “casalino”, spesse volte menzionato come “diruto”, voce presente ancora nella documentazione cinquecentesca e rimasta nel dialetto locale per indicare una casa scoperta, spalancata ed abbandonata.
Sul finire del XIII secolo inizia a comparire, anche a Troina, la distinzione tra “domus terranea”, casa unicellulare in cui si svolgeva la vita di tutta la famiglia, e “domus solerata”, ambiente sempre unicellulare ma raddoppiato dal solaio: al piano terra si svolgevano le attività di lavoro ed al primo piano si dormiva. Altri esempi ricorrono in documenti riferiti a periodi successivi e se si tolgono le strutture più stabili e durature, quali le torri, i mulini ed i fondachi, realizzati in muratura con blocchi di arenaria squadrati, un buon numero di case rurali più stabili viene riscontrato in località prossime all’abitato di Troina, quali per esempio nella “Valle San Michele”, l’attuale contrada “Sotto Badia”.
“Casalena”, “Casa dei Fossi”, “Casabianca”, “Casazza”, “Casotte”, sono i nomi di località riportati nell’attuale cartografia IGM, che stanno ad indicare delle case rurali o piccoli insediamenti dislocati nel territorio; per quest’ultimo caso si menziona “Case Sotto la Badia” e “Piano delle Case”. Il “Magazzinaccio”, dall’arabo “mahzan” = “magazzino”, località posta nella parte meridionale del territorio, indicherebbe la presenza di un ambiente dove venivano conservate le derrate alimentari, un antico granaio.
Altri edifici menzionati nella toponomastica sono legati all’attività zootecnica e da essi è possibile stabilire il tipo di allevamento presente nel territorio, anche se un buon numero di strutture si riferisce prevalentemente agli ovini. La pastorizia, infatti, giocando in quest’area un ruolo importante, prevale sull’agricoltura poiché riesce a sopportare meglio le conseguenze delle contrazioni demografiche, poiché con le risorse fornite da pecore e capre l’uomo si assicura la nutrizione.
La “mandra” o “mànnira”, dall’arabo “manzrah” = “area chiusa”, rappresenta il tipico ricovero deputato all’allevamento degli ovi-caprini, un’area circondata da siepi o da muri a secco, dove vengono custodite le pecore. Tale voce la si farebbe derivare anche dal greco “mándra”, in ambo i casi col significato di spazio chiuso o recintato. Si tratta di strutture, le poche esistenti, diventate oggi testimonianza e segno della cultura materiale.
Al complesso dei ricoveri, comprendenti la capanna dei pastori, i recinti per le greggi e gli ambienti nei quali avveniva la caseificazione, si da il nome di “màrcatu”, dall’arabo “marqad” = “luogo di riposo”.
Località “Aczò”, citata nel 1169 e, successivamente, riconfermata nel 1351 con contrada “de Azo”, è voce che si riferisce al giaciglio degli animali, dal latino “jacium”, rappresentando quello che ancora oggi viene denominato in dialetto “‘u iàzzu”. Era questa un’area scoperta e cinta con siepi o muretti, entro cui si facevano giacere e, pertanto, venivano custodite le bestie. L’esigenza di proteggere gli animali allevati, soprattutto nelle ore notturne, sembra avere la conferma da muri, siepi, recinti ed apprestamenti realizzati nell’ambito dei ricoveri, poiché parecchie erano le bestie dalle quali bisognava difendersi, quali per esempio le volpi, i gatti selvatici ed i lupi.
Il toponimo “Zactani”, attestato nel 1294, originario dall’arabo “sakan” = “abitazione” o, meglio, dal greco “sákanon” = “recinto”, “ovile”, testimonierebbe anche in questo caso un’area cinta da siepi o da muri a secco, dove venivano rinchiuse le bestie ed avveniva la mungitura, solitamente riferita ai bovini. Del XVI secolo è la comparsa del toponimo “Castili”, il quale viene riscontrato per Troina in più zone; esso deriverebbe dal latino medievale “cast(r)ilis” = “ovile”, formato da “castus”, per “castrus” = “montone”.
Passando all’allevamento caprino, di un certo interesse risulta il toponimo “Daunera”, località che indica l’allevamento della capra o, meglio, un terreno ripido e sassoso adatto al pascolo di tali animali. Toponimi più recenti, quali “Caprarìa” o “Craparìa”, indicano il luogo dove si custodiscono o si allevano le capre o, anche, una località di pascolo utilizzata da questi animali.
Altri toponimi da annoverare e correlati all’allevamento degli animali sono “Porcello” e “Porcaria”, i quali rappresentano luoghi dove avveniva l’allevamento del maiale allo stato brado, attestati anche da un’altra contrada denominata “Grillazzo”, termine che si farebbe derivare dal greco “grýllos” = “maialino”. Infine, “Cavallaro” indica una località dove si allevavano cavalli, sicuramente allo stato brado, come pure il toponimo “Cantaro”, dal latino “cantherius” = “cavallo castrato”.
Si arriva, dunque, alla “masseria” o “massaria”, tipico fabbricato rurale siciliano, antico insediamento agricolo la cui storia è legata a quella del feudo e del latifondo. Questo termine, se in un primo momento indica la grande proprietà tardo-romanica, passando per quelle forme di sfruttamento agricolo del territorio tipico del basso Medioevo (“fari massaria”), in un secondo tempo indica anche l’edificio, punto di appoggio dell’impresa agricola. Fra tardo antico e prima età bizantina, la “massa” rappresenta un’estesa proprietà terriera con al centro un complesso di edifici, la cosiddetta villa rustica, facente parte di quell’immenso patrimonio fondiario siciliano legato alla Chiesa.
In questo contesto il latifondo, declinato sotto i Musulmani, ricompare con i Normanni, ricostituendosi attraverso la pastorizia e la cerealicoltura estensiva; ma ancora, fino a questo periodo il termine “massaria”, indica un territorio rurale ed un modo di organizzare la produzione agricola. Non grandi edifici ma qualche pagliaio che serve ad alloggiare gli aratori ed i mietitori per il tempo strettamente occorrente alle operazioni colturali. “Fari massaria”, pertanto, significa prendere in affitto per brevi periodi, di solito per tre anni, un feudo o una porzione di feudo e coltivarlo a grano. La voce “massaria”, intesa come complesso edilizio avente una tipologia ben definita, si può riscontrare già in questo territorio dalla seconda metà del ‘300, raggiungendo una diffusione nel ‘500 ed a questo punto, la “massaria” diviene un’azienda agricola stabile con diversi edifici.
Generalmente, la “massaria” è costituita da un agglomerato di costruzioni basse e terranee che, a volte, chiudono un cortile, il cosiddetto “baglio”. Vi si possono distinguere la casa padronale, le stalle (dial. “‘i ‘mpinnati”), i magazzini (dial. “‘i masazena”), il fienile (dial. “‘a pagghiera”); i locali dove è posto il forno (dial. “‘a pannittarìa”) o si produce la roba (dial. “‘a ribattarìa”); altri caratteri identificativi sono la chiesa ed il bevaio (dial. “‘a biviratura”).
Uno dei pochi toponimi rimasti e riportati ancora nell’attuale cartografia è “Massaria Vecchia”, la cui località è da intendersi non solo come presenza di un edificio adibito a massaria, ma anche come “podere” o “tenuta” in cui si faceva “massaria”. Tra le case rurali indicate con “masseria” nella cartografia IGM si annoverano: “Masseria Acquavena”, “Masseria Epìscopo”, “Masseria Gioitti-De Luca”, “Masseria Giunta”, “Masseria Miraponte”, “Masseria Ospedale”, “Masseria Pisciarò”, “Masseria S. Cristoforo”.
Caratteristica dell’ordine religioso dei basiliani, rappresentato a Troina da diversi monasteri e cenobi, erano le cosiddette “gràncie” o “gràngie”, chiese o conventi non autonomi, dipendenti da altre chiese o conventi principali, ma che in queste zone assumevano anche significato di magazzino di granaglie o, ancora, di vera e propria masseria, dal francese antico “grange”, “granche” e dal latino medievale “grànica” = “granaio”. Dentro un’area delimitata da mura, trovavano posto la foresteria, i granai, il forno, il mulino ed alcune celle per l’abitazione dei monaci secolari, oltre all’infermeria. La “gràngia”, pertanto, costituita da una serie di edifici rurali posti nell’ambito dei terreni del monastero per la custodia, in un primo momento, dei prodotti agricoli, viene trasformata poco alla volta, in una piccola comunità monastica finalizzata al lavoro agricolo dei monaci e governata da un rappresentante dell’abate. Ma già nel XVI secolo, in regime di commenda, il monastero di S. Michele Arcangelo, presentava alcune “gràngie” distrutte o desolate, pur avendo notizia che nello stesso periodo ne esistono ancora altre, quali “S. Gregorio del Boschetto” nel feudo di “Buscemi”; “S. Cataldo fuori Troina” e “S. Domenica”. In particolare, nell’odierna contrada “S. Cataldo”, località posta lungo il “Fiume Troina”, sono presenti ancora i ruderi di un mulino e di un paratore, oltre ai magazzini.

Nicola Schillaci

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