Lo vedi nel suo laboratorio all’opera, Aldo Prestipino, e il suo sorriso felice ti contagia mentre ti mostra, ancora fresca di sogno e di destino, l’ultima forma nascente. Una barca. Oggetto-scultura, in attesa di colore e, sembra, dettagli imprevisti. Lunghi frammenti di fasce giocati in superficie, rilievo minimo. Limpidamente cartesiano, negli assi compositivi, l’impianto. Semplice compensato e bacchette di metallo, la struttura. Sottile e leggerissima, ti sorprende. Talmente gaia, dritta e acuminata come una freccia verso il bersaglio, pronta più al volo che al galleggiare.
Entri in casa e, nella luce che viene dal gesso bianco delle ultime sculture, incontri di nuovo la gioia del Maestro. E ancora di nuovo ti contagia. Nella permanenza di un segno personale, forte e inconfondibile, un passaggio ulteriore si racconta. Ci sono le sue “fasce” (le vedi già splendere nel bronzo), prima più robuste poi sempre più leggere e sottili, che si intrecciano, ora in forma di colonna, ora di cono o di spirale, ora di sfera. Ora in alternanze semplici quasi simmetriche, ora in articolazioni complesse e moltiplicate. Ora lisce, ora finemente corrugate. Ma non c’è più massa, né peso. Non c’è più figura. Le fasce avvolgono uno spazio vuoto di materia. Resta una dinamica di linee, una tensione di energie. Resta, platonicamente, la forza basilare dell’idea. Forme aperte tanto leggere, da divenire talora basculanti. Le vedi nomadi, fluttuare annusando, come la barca, l’infinito.
Superato il senso classico, antropocentrico e affermativo, di una scultura fulcro dello spazio in cui si cala, questa scultura non prevarica lo spazio. E non offre resistenza. Lo spazio le si accorda, entra con il vento liberamente ed esce e, con il vento, canta. Per una via intuitiva, per nulla influenzata dalle mode, assolutamente interna al suo mondo artistico ed esistenziale, Prestipino giunge alla saggezza orientale del Tao. E a ben vedere, sta qui la gioia.
Ti affacci sul giardino e vedi che il più era già in quelle grandi pietre degli anni ’90 che guardano il lago: Il Viaggio, Idillio, e soprattutto Amanti. C’era negli studi preparatori a carboncino, in quelli degli anni ’80, già astratti. C’era, nonostante la figura, perfino nei pastelli e nei bronzi del mito. Nelle ultime cose, carboncini e crete monocrome su grandi fogli di carta speciale fatta a mano in Sicilia, quella tendenza kandinskiana all’astrazione presente fin dagli inizi (vi si intravede anche Klee e perfino il Mondrian iniziale della serie degli Alberi), matura attraverso un processo progressivo e inarrestabile di semplificazione e purificazione. Sia che si tratti di linee sottili, fluenti come capigliature in larghi movimenti, sia che si tratti di fasce come correnti di tensione e di energia, sia che si tratti di grandi intrecci in campiture senza confini.
Da qui in poi è libertà. Dalla scultura vuota, come snodo di forze nello spazio, a uno spazio minimale, apparentemente compresso, ma invece rarefatto come l’aria d’alta quota. Smaterializzato e del tutto spirituale. Opere nuovissime che utilizzano in sovrapposizione ritagli di legni sottili e soprattutto quella bellissima carta siciliana, per la prima volta assunta non come semplice supporto, ma nella sua oggettiva, specifica qualità materica. Le fasce divenute segni di un grafismo in cui mutano gli spessori, le proporzioni, la scansione ritmica. Ripetizioni e differenze, in variazioni impenetrabili. Strati sottili, gli uni sugli altri, trafori, applicazioni, in profondità minime con ombre leggere, infinitesimali. Un bassissimo rilievo (fino ad affioramenti di forme sullo stesso foglio ottenuti col torchio calcografico) che, annullando la distanza tra pittura e scultura, recupera d’istinto un secondo genius loci. Quella cultura araba che dal mondo classico ci transita nel medioevo mediterraneo: tutto si fa vicino e si stringe, dice Erri De Luca, in quel sottosuolo mischiato dei “sangui” che è la nostra cultura meridionale.
Bianco, nero, tracce o grovigli di rosso primario. Ma soprattutto nero su nero e, ancora più, bianco su bianco, in forme d’uovo metafisico, dove lo spazio rinvia solo a se stesso e perciò si fa zen, mistico e meditativo. Azzerate natura e soggettività, superata l’arte come espressione, viaggiamo alti nelle regioni dello spirituale, dove abita la purezza solitaria, autoriflettente, del pensiero.
Il momento presente di Prestipino sposa la gioia con la filosofia. E’ sapienza ed è gioco. Ricerca e sperimentazione. Per la prima volta manipola materie povere di scarso valore, industriali, come il compensato, la rete plastica, l’ovatta sintetica, il polistirolo, tessuti sdruciti, con cui interfacciano gli intrecci mobili di segni, i nodi di fasce, i cubi. Intanto, vitalmente attratto e incuriosito da una contemporaneità altra che cortocircuita la sua fantasia, progetta intrecci giganteschi di lamiera.
Cinzia Farina