Domani, anzi meglio dopodomani
Scorrono le vite lungo le sponde del rinvio. Vite di cittadini, di emigranti, di esuli, vite di disoccupati che ricominciano a invadere le piazze.
Movimenti lenti di vite in rivolta, inquietanti vigilie di nuovi smottamenti sociali, preludio di accadimenti che vorremmo allontanare dalla nostra immaginazione.
E mentre tutto ciò si muove inesorabilmente sotto il nostro sguardo, l’attuale governo affina la sua naturale propensione al rinvio, sposta le date dei provvedimenti urgenti, tradisce il giuramento dell’abolizione del “porcellum” entro l’agosto del 2013, glissa nominalmente sull’ IMU e dona, senza indugi, l’aumento dell’ IVA.
Il rinvio è divenuto, ormai, l’osceno e assoluto protagonista della scena politica italiana, dopo aver tratto ispirazione dal raffinato copione dell’andreottismo e avere individuato nei rivoli dell’immanente burocrazia il suo habitat rassicurante.
Rappresenta l’unica via nazionale verso la governabilità e la stabilità, ma sebbene si camuffi abilmente dietro i proclami del fare, disvela le sue reali sembianze nelle eterne commissioni d’inchiesta o di studio, nelle irrisolte bicamerali, nei comitati di saggi e/o di tecnici, nelle grandi conferenze nazionali, nelle sentenze che di grado in grado giungono fino all’annullamento di interi processi, nella rinuncia, insomma, alla giustizia e alla verità.
Si rinviano gli inizi e la fine dei lavori pubblici, si riprogetta, si rifanno opportunamente i calcoli di ogni opera, si lasciano aperti i discorsi sui progetti di dubbia realizzazione: emblematica è la riproposizione a ogni campagna elettorale della costruzione del ponte sullo stretto di Messina considerata rischiosa e improponibile persino dal Gota dell’ingegneria giapponese a causa della zona sismica ove insisterebbe.
Rinviando non si vince e non si perde, non ci si espone a giudizi, non si rischia l’impopolarità e ci si assicura la possibilità di una nuova candidatura, il rinvio si configura, dunque, per chi ci rappresenta, come una sorta di “bene rifugio”. Grazie all’opera dei temporeggiatori una moltitudine di problemi risolvibili, ma rinviati, si sono ingigantiti in modo esponenziale.
Siamo i nipoti prediletti della mancanza di coraggio, abbiamo perduto la forza della rottura e nel contempo quella dell’alleanza, siamo maestri nelle preparazioni e incapaci nel fare.
È un istinto, una patologia, un tunnel, una pulsione irrefrenabile che accomuna governanti e cittadini del nostro paese, che coinvolge intere categorie professionali, tutti riconducibili a una specie unica: l’homo politicus indifferente ormai al monito di Seneca:” Dum differtur, vita trascurrit”… mentre si rinvia la vita passa.
Il rinvio costante è un’acquisizione culturale non un aspetto innato della personalità, è un’abitudine che genera stress e corrode l’autostima, paradossalmente il procrastinare richiede più tempo, maggiori energie psichiche, ma, soprattutto, una grande produzione di adrenalina.
Il demone del rinvio si é impossessato anche di letterati, di poeti: Vittorini e Gadda completavano con difficoltà i loro romanzi e, in altri paesi, Pessoa nella sua raccolta “Nei giorni di luce perfetta” dedicò un’ode al rinvio e J.Perry scrisse “La nobile arte del procrastinare”. Ma qual’ è l’elemento che genera questo fenomeno così diffuso? La madre di tutti i rinvii é la paura, paura dell’ignoto, del giudizio altrui, delle responsabilità, del cambiamento, del rifiuto, dell’ inadeguatezza, un elenco infinito che ci fa riflettere su quanto la paura di una scelta condizioni le nostre esistenze, la società, la politica.
Per paura si rinuncia a brillanti carriere, a rapporti affettivi fondamentali, alla creazione di imprese o di rivoluzioni strutturali all’interno di esse e a tante altre opportunità, il risultato ha un solo nome: perdita. A tal proposito, riemerge dalle letture infantili la fiaba del giovane che seduto su una seggiola, resiste per 999 lunghe notti attendendo che la finestra chiusa della sua adorata principessa si apra, ma che, sfinito dalla prova, a un passo dal traguardo chiude la sua seggiola e va.
Nietta Bruno
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