giovedì , Giugno 1 2023

Comune di Gela

Gela nella preistoria
Logo GelaGela1Durante il Neolitico il territorio di Gela era abitato da popolazioni mediterranee, che vivevano in capanne costruite in legno,paglia e fango.
Tra il 3000 a .C. ed il 1500 a .C. Gela fu abitata prima dai Sicani, in seguito dai Siculi che, passato lo stretto di Messina, combatterono contro i Sicani costringendoli a ritirarsi al di la’ del fiume Imera, nella parte occidentale dell’Isola.
I Siculi si stanziarono nella parte sud-orientale, con roccaforti nella zona del Disueri. Sono state trovate testimonianze di questa popolazione nelle necropoli di Disueri, Mangiova, Manfria e Settefarine in cui sono state rinvenute, in tombe scavate nella roccia, utensili, gioielli, armi e giocattoli.

Gela2Gela Ellenica
Gela fu fondata da coloni Rodii-Cretesi guidati da Antifemo ed Entimo intorno al 689 a .C., precisamente, secondo Tucidide, 45 anni dopo la fondazione di Siracusa e 108 anni prima della fondazione di Agrigento.
La città prese il nome di Lindioi e poi Gela, dal nome indigeno del fiume alla cui foce si erano insediati i colonizzatori.
Questi occuparono ben presto, il circondario di Gela fondendo la cultura indigena con la propria. In campo religioso Telines, sommo sacerdote di Demètra e Kore, impose il culto delle proprie divinità esteso al resto della Sicilia e sopraggiunto anche a Roma.
Gela in breve tempo si arricchì di abitazioni, templi dedicati a Demetra e Kore, Athena, Hera, ed altri numi benefici, dando inizio alla colonizzazione delle zone attigue. Nel 580 a .C., coloni di Gela, guidati da Aristinoo e Pistilo, fondarono Agrigento che si rese autonoma dieci anni dopo.
Grazie all’opera dei suoi tiranni (Cleandro, Ippocrate, Gelone) Gela si affermò; in breve tempo, guida per l’unità di tutti i popoli greci della Sicilia. Si impossessò di Camarina, occupò Gallipoli, Nasso e Leontini confermandosi padrona incontrastata della Sicilia greca, creando un blocco contro la minaccia dei Cartaginesi che occupavano la Sicilia occidentale.
Nel 485 a .C. Gelone spostò la sua residenza a Siracusa e nel 480 a .C. Gela partecipò con la sua cavalleria accanto ad Agrigento e Siracusa, alla grande battaglia di Imera che vide la sconfitta di Amilcare e il suo esercito cartaginese forte di trecentomila uomini.
A seguito di questa vittoria Gela si ingrandì ancora e le testimonianze del suo splendore si possono ammirare nel Museo archeologico nazionale. Gelone, della famiglia dei Dinomenidi, inviò due ricchi tripodi d’oro presso il santuario di Apollo a Delfi, dove i Gelesi avevano da tempo costruito un thesauros. A Gela il tiranno innalzò un tempio dedicato a Demètra e Kore, di cui tutt’ora rimane, una colonna in stile dorico.
Gela visse un momento di grande prosperità e abbondanza tanto che Roma, come ci tramanda Erodoto, colpita da siccità e carestia, ne conobbe la generosità, avutone gratuitamente venticinquemila medinni (4859 salme) di frumento spedito con triremi geloe.
Divenuto tiranno di Siracusa, a Gelone succedette, al governo di Gela, il fratello Gerone. Gelone riordinò Siracusa e mise pace fra le fazioni opposte. Gelone morì nel 478 a .C. e per lui cantarono Pindaro, Epicarmo ed Eschilo che elesse Gela a dimora definitiva. Qui morì nel 456 a .C. colpito, dice la leggenda, da una testuggine lanciata da un aquila in volo. Morto Gelone, a Siracusa gli successe il fratello Gerone. A Gela si insediò il terzo fratello, Polizelo, grande mecenate, più volte vincitore dei giochi olimpici. Di lui esiste, a Delfi, una scultura bronzea, l’Auriga, donata dopo aver vinto una delle gare più prestigiose.
Nel 424 a .C. Gela fu scelta per celebrare la prima convention della Sicilia: il congresso della pace. Il motivo della riunione fu dettato dal pericolo che gli Ateniesi si impadronissero dell’Isola approfittando delle discordie tra le grandi e potenti città siceliote. Lo storiografo Tucidide tramanda il discorso tenuto dal siracusano Ermocrate in cui si invitano tutti i partecipanti a deporre le armi fra di loro per affrontare il nemico comune. L’accordo ebbe breve durata.
Sconfitti gli Ateniesi, un altro pericolo appariva all’orizzonte: quello punico. L’avanzata dell’esercito punico metteva in pericolo anche Gela, e come se questo non bastasse, il popolo insorse contro gli aristocratici della città. Intervenuto Dionisio I, accordò al popolo ogni ragione e dopo aver confiscato i beni degli aristocratici, li condannò a morte.
Sconfitta Agrigento i Cartaginesi invasero Gela e Camarina, distruggendole. Gli scampati si rifugiarono a Leontini. Era la primavera del 405 a .C. Dopo otto anni i profughi gelesi provarono a ritornare nella loro città.
Sotto la guida di Timoleonte, Gela ritornò ad essere prospera e visse un lungo periodo di pace: continuò a coniare monete e fiorì nel campo delle arti. Fu questo il periodo in cui vissero i gelesi Archestrato, padre della gastronomia; Apollodoro, poeta e commediografo; Timagora, filosofo; Euclide, matematico.
Morto Timoleonte ( 336 a .C.) ricominciarono i dissidi tra le varie fazioni risvegliando sogni espansionistici tra i popoli nemici della citta’ di Gela. Nonostante l’impegno di Agatocle, l’avanzata cartaginese si fece sempre più minacciosa. Lo scontro tra i Cartaginesi, forti di 45 mila uomini e i Sicelioti, tra i quali anche Geloi, fu un disastro per questi ultimi ed i loro alleati. La sconfitta fu l’inizio della fine per Gela. Nel 282 a .C. la città fu distrutta dagli Agrigentini guidati da Finzia.
Questo l’amaro destino di una gloriosa città condotta al massimo splendore dai Dinomenidi di Gela, spartendo le sorti con Agrigento da lei fondata.
gela3Gela Post-Ellenica
Dopo la distruzione della città ebbe inizio l’occupazione dell’Isola da parte dell’esercito romano guidato dal console Marcello che, dopo occupata Siracusa, attrasse alle spire di Roma il resto della Sicilia. I Cartaginesi furono affrontati e sconfitti da Marcello sulle rive dell’Imera meridionale. Tracce di questo importante periodo storico sono state riscontrate nelle campagne di Gela (ceramiche, necropoli bizantine ecc.) e, a riprova si sa che nel 208 a .C. Gela soccorse i Romani (console Levino) con uomini, armi, viveri e denari; nel 202 a .C., Scipione, dopo la conquista di Cartagine, restituì quello che rimaneva dell’antica città molti degli oggetti che i Cartaginesi avevano loro trafugato; nel 76 a .C. Cicerone accusò Verre, il famoso “ladro” romano, di peculato e concussione per le infami ruberie perpetrate anche a Gela; da lui sappiamo inoltre che Gela, dopo la distruzione, fu impinguata di una colonia di Romani, inviata da Publio Servilio.
Nel 603 d.C. la città era chiamata “Massa quae dicitur Gela” e sicuramente consisteva in un piccolo borgo il cui centro doveva trovarsi nelle vicinanze del cimitero monumentale, ove più tardi, nel 1099 fu costruita una piccola chiesa, detta di S. Biagio, tutt’ora esistente.
Il nome della città subì vari cambiamenti e Gela fu chiamata, per le colonne che vi sorgevano, anche “Citta’ delle colonne” o “Eraclea”; il nome rimase negli atti ufficiali civili fino a quasi tutto il 1700 e negli atti ecclesiastici fino ad oggi.
Nell’837 d.C. la città di Eraclea fu occupata dal condottiero arabo Asad ibn al-Furat. Gli Arabi vi introdussero la coltivazione del cotone e nuovi sistemi d’irrigazione e chiamarono il fiume Gela “Wadi ‘as Sawari”, ossia “Fiume delle Colonne”, e l’abitato “Calat ‘as Sawari”, Citta’ delle Colonne.
Sotto il dominio normanno Eraclea ebbe il privilegio di citta’ demaniale decretato dal conte Ruggero e confermato dal re Martino e dai regnanti successivi.
Nel 1233, passata la Sicilia sotto il dominio svevo, Gela fu riedificata da Federico II che la chiamò Terranova, per distinguerla dal vecchio sito ubicato nella parte occidentale della collina, facile preda di incursioni saracene.
Terranova, il cui stemma raffigura l’aquila sveva di Federico II che si poggia su due colonne, sorse nella parte orientale della collina, nel sito attuale ove è ubicato il centro storico che va da Porta Licata a Porta Vittoria e da Porta Marina a Porta Caltagirone. Gli abitanti, poco alla volta, si trasferirono nella nuova città e la circondarono di mura, tutt’ora testimoni silenziosi di quel tempo. Alla morte di Federico II Terranova si dichiarò comune “autonomo” e si pose sotto la protezione della Sede Apostolica. In seguito passò agli Angioini e nel 1282, dopo i Vespri Siciliani, elesse un regime autonomo diretto dal governatore Anselmo Cannizzaro.
Nel frattempo furono costruite la chiesa principale “Santa Maria della Platea” (nel luogo dell’Agorà o piazza) e la vecchia chiesa di S. Giacomo (oggi scomparsa).
Durante il periodo feudale il territorio di Gela fu acquistato da Don Carlo D’Aragona e Grujllas, da cui discesero i duchi di Terranova, tenutari del secondo posto al Parlamento del Regno e più volte vicerè di Sicilia durante la dominazione spagnola.
Nella 1437 Terranova divenne città baronale. A Don Carlo D’Aragona successe la figlia Giulia Agliata e dal 1640, per oltre 100 anni, la città passò in mano ai marchesi Pignatelli.
Nel 1788 gli abitanti di Terranova per liberarsi dal vassallaggio nei confronti dei duchi di Monteleone pagarono un riscatto presso il reale Patrimonio, incaricando della questione Don Giuseppe Mallia, barone di S. Giovanni.
Il 3 marzo 1799 il paese venne funestato da un memorabile fatto di sangue, conosciuto come “U ribellu”. Le dispute tra conservatori e giacobini culminarono nell’uccisione di cinque rivoluzionari. Non mancarono episodi esilaranti che videro il notaio D’Anna nascondersi sotto il baldacchino del Santissimo, accanto al parroco Mallia che, preoccupato per la tensione tra le due parti, aveva improvvisato, qualche ora prima, una processione del Corpus Domini.
Nella seconda metà dell’800 le idee anarchico-socialiste erano diventate patrimonio comune della povera gente e degli intellettuali della nostra città. Nel novembre del 1892, anno in cui nasceva il partito socialista, veniva costituito il “Fascio dei Lavoratori” che contava, a Terranova, oltre mille affiliati. Primo presidente fu Mario Aldisio Sammito, un patriota intellettuale che aveva avuto rapporti epistolari con Garibaldi, Mazzini e altri eroi risorgimentali. Il Fascio, che rivendicava più giustizia sociale e meno imposizioni fiscali, venne sciolto due anni dopo dal governo Crispi e i suoi dirigenti furono imprigionati.
L’abolizione del feudo, decretata nel 1812, rimase un atto puramente formale. Il ricco patrimonio del comune di Terranova era ancora nelle mani di poche famiglie; a nulla valsero le denunce di onesti consiglieri comunali contro gli illegittimi possessori che, tra l’altro, erano anche amministratori della citta’. Le terre demaniali (Farello, Gibilmuto, Zai, San Leo, Scomunicata e altre contrade) non riuscirono ad essere reintegrate nel patrimonio comunale, nonostante la sentenza emanata il 27 novembre 1915 dalle Sezioni Unite del Collegio Supremo.
Nel 1927 la città fu autorizzata a chiamarsi con l’antico e glorioso toponimo greco. Dopo lunghi decenni di decadenza, dovuti alla generale questione meridionale, alle ultime guerre e alle ricorrenti crisi agricole, fu scoperto il petrolio nel sottosuolo gelese (1956).
La favorevole posizione geografica, la presenza del greggio, La fame atavica del luogo, indussero l’ENI e lo Stato alla costruzione di uno stabilimento petrolchimico, munito di porto-isola, che doveva favorire l’industrializzazione di Gela e del circondario.
Lo stabilimento, purtroppo, in assenza di una seria politica di governo si è rivelato una cattedrale nel deserto, lasciando insoluti i problemi di sempre e disattendendo le speranze dei gelesi.
Gela4I Bagni Greci
Il complesso termale venne alla luce nel 1957, in prossimità dell’Ospizio di mendicità, a sud del moderno Ospedale, nell’area compresa tra via Palazzi, viale Indipendenza e via Europa e consta di due ambienti: il primo ambiente, a nord-ovest, all’interno del quale vi sono due gruppi di vasche  collegate ad un condotto di scarico; il secondo ambiente, invece, comprende un locale di riscaldamento sotteraneo, un vero e proprio ipocausto. Le due stanze, coperte dal tetto con tegole, erano separate in origine da un muro in mattoni crudi del quale restano solo le tracce dell’assise inferiori. Il muro doveva essere intonacato.
Il primo gruppo di vasche era formato in origine da 14 vasche disposte a ferro di cavallo attorno ad un pavimento di lastre quadrate di terracotta; restano al momento 12 vasche. Attorno alle vasche del settore nord correva un muro di pietrame al quale esse si addossavano; all’esterno, a ovest, un altro muro con andamento trapezoidale costruito in un secondo momento, forse per ampliare l’ambiente; esso è formato da pietre. Le vasche del primo gruppo sono del tipo greco a sedile e hanno inferiormente una cavità emisferica destinata a poggiarvi i piedi o per essere svuotata agevolmente, visto che non hanno foro di scarico e dovevano essere vuotate a mano. Le vasche delle file rettilinee sono costruite con conglomerato (detriti di arenaria e frammenti di terracotta) e ricoperte da intonaco bianco. Alcune vasche del primo gruppo, e precisamente quelle del tratto occidentale, sono portatili e realizzate in terracotta, e, forse, facevano parte del complesso più antico trasformato, così come anche il pavimento. Il secondo gruppo è costituito da 22 vasche disposte a cerchio attorno ad un’area pavimentata in conglomerato. Tutte le 22 vasche sono mutile della metà posteriore, forse perchè il complesso non era stato portato a termine.
Il secondo ambiente ad est è costituito da un impianto di riscaldamento con cameretta e due corridoi sotterranei, nei quali avveniva la combustione. L’ambiente superiore, il cui pavimento era sorretto dalle pareti dei corridoi sotterranei, doveva servire per vere e proprie saune. L’impianto termale di Gela, che è l’unico complesso del genere in Sicilia, trova confronti con quelli greci di Delfi, di Olimpia, di Colofone, di Gortys, pur essi databili al IV-III sec. a..C.; la datazione è confermata dal ritrovamento di unguentari, di oscilla, di anfore di tipo italico e punico, presenti negli ambienti suddetti, nonchè dalle monete di età timoleontea, alcune di conio siracusano (Trias: D/Testa di Athena con elmo corinzio; R/Ippocampo), di Gela (D/Testa di Zeus; T/Testa di Demetra di tre quarti), di tipo siculo-punico (D/Testa di Persefone-Tanit; R/Cavallo e palma) recuperate sul pavimento. L’ impianto fu distrutto da un incendio intorno al 282 a.C.
Gela5Il Castelluccio
Su una collina di gesso, dove il Gela sbocca nella piana dopo le gole del Disueri, si erge maestoso il Castelluccio a guardia della costa e a difesa del percorso verso l’interno lungo la valle del fiume.
La menzione più antica del Castelluccio ci è pervenuta in un atto di donazione del 1143 con il quale Simone, conte di Butera e membro della famiglia Aleramica, dona all’abate di S. Nicolò l’Arena di Catania, alcune terre site nell’area meridionale della contea perchè le faccia mettere a coltura: il Castelluccio viene citato come termine di confine all’estremità orientale dei beni assegnati al monastero. Lo stesso termine, ora in latino Castellucium, e con riferimento allo stesso sito, compare ancora in un documento del 1334 col quale la regina Eleonora conferma allo stesso monastero gli stessi beni.
Un altro documento, ricordato da autori del XVII e del XVIII secolo, conferma la donazione del Castelluccio da parte di Federico d’Aragona a Perollo di Moach milite caltagironese: i beni ubicati nel territorio di Eraclea comprendenti il Castelluccio ed i territori circostanti sarebbero stati assegnati in precedenza ad Anselmo di Moach ed in seguito confermati al pronipote Perollo. Da questo documento emergono due elementi interessanti: in primo luogo che l’edificio attuale (o un edificio comunque fortificato definito Castelluccio) esisteva nella pianura gelese, ed in secondo luogo che tale edificio, di proprietà del demanio regio, era stato concesso in feudo già nel corso del XIII sec.
Ben poco si conosce delle vicende successive: l’edificio sarebbe stato assegnato da re Martino al nobile Ruggero Impanella alla fine del XIV sec., ma essendosi il nobile allontanato senza autorizzazione regia, verso la metà del XV sec., re Alfonso gli avrebbe revocato il possesso della rocca che avrebbe assegnato, con i terreni circostanti, a Ximene de Corella coppiere regio. Quindi attraverso gli eredi, il Castelluccio sarebbe passato al patrimonio degli Aragona di Terranova e quindi dei Pignatelli.
Costruito in parte riutilizzando i blocchi di calcare bianco e calcarenite gialla del muro greco di Caposoprano ed in parte a filari regolari di pietra sgrossata, esso presenta un raro rigore formale nella definizione generale e nei particolari architettonici, tutti tesi alla concreta funzionalità, spogliata di ogni indulgenza decorativa.
Il cantiere di restauro, impiantato nel 1988, e lo scavo archeologico dell’interno, ci restituiscono un Castelluccio rigorosamente simmetrico che chiude con una fine violenta la prima fase di vita.
Una seconda fase vede la profonda trasformazione della parte orientale con l’inserimento del camino con fasci di colonnine trecentesche alla base l’apertura di una monofora sul prospetto settentrionale e la costruzione della torre est.
Dopo un altro incendio che chiude questa fase sarebbe seguito un abbandono temporaneo dell’edificio, col crollo dello spigolo settentrionale della torre est e quindi nel XV sec. (probabilmente in concomitanza con analoghi lavori nel Castello di Mazzarino), un tentativo di trasformazione del castello in Palazzo; furono sopraelevati i muri meridionale e settentrionale (impostati sopra la merlatura originale), restaurato lo spigolo crollato della torre est e la vecchia struttura subì una serie di adattamenti.
Nel corso dei lavori (forse a causa di un terremoto?) il castello si lesionò profondamente. Il cantiere fu interrotto e l’edificio abbandonato.
Bombardato dagli incrociatori alleati l’11 luglio del 1943, subì il crollo di parte della torre est e dell’estremità orientale del prospetto sud.
Gela6Il Lago Biviere
Il Biviere di Gela è un lago costiero  incassato tra le dune del golfo, ad appena un chilometro e mezzo dal mare, dal quale, in passato, era in gran parte alimentato. Compreso tra Gela (da cui dista otto chilometri) e il fiume Dirillo, si allunga parallelamente alla linea di costa per circa due chilometri in direzione nord-ovest sud-est, occupando un’area di 120 ettari. Largo da 150 a 600 metri ha un perimetro di circa sei chilometri, una profondità massima di sei metri ed una capacità di oltre cinque milioni di metri cubi.
Tali dati, tuttavia, sono alquanto indicativi, vista la forte escursione volumetrica alla quale è soggetto a causa del suo utilizzo a fini irrigui. In tal senso, infatti, il Biviere ha subito nel tempo imponenti interventi tendenti alla sua trasformazione in bacino artificiale tramite costruzione di argini e canali che vi hanno convogliato le acque dei torrenti Monacella e Ficuzza e di parte del fiume Dirillo. Le variazioni in volume si traducono in vistose modificazioni in estensione e perimetro dello specchio d’acqua provocando altresì sbalzi di salinità dell’ordine di 1-2 grammi per litro. Tutto ciò influisce sulle comunità vegetali e animali sottoponendole a repentine mutazioni ambientali che precludono un qualsiasi tipo di adattamento.
Oltre all’alterazione dei fattori fisici e chimici, si è avuta una variazione della stessa fisionomia paesaggistica del lago ad opera delle bonifiche che ne hanno decurtato alquanto la superficie, e delle colture sviluppatesi fin a ridosso delle sponde. Anche la vegetazione è cambiata per l’inserimento di nuove specie usate come frangivento che hanno finito per imporsi su quelle originarie. L’azione antropica ha prodotto effetti anche sulla fauna.
Oggi, visitandolo, è facile vedere la garzetta, l’airone, il cavaliere d’Italia, il cormorano, l’avocetta e molte altre specie del vastissimo patrimonio ornitico stanziale e migratorio di quest’area umida. Sul piano ecologico va distinta una vegetazione lacustre, legata all’ambiente acquatico, ed una litorale più esterna. La prima annovera idrofite tutte o in parte sommerse come i potamogeti (potamogeton pectinatus, P.natans) e il ceratofillo (Ceratophyllum demersum), tipiche di acque calme e calde. Sulle rive, sempre strettamente in rapporto con l’acqua si riscontrano elementi dello Scirpeto-Fragmiteto con tife e scirpi all’interno e cannucce di palude più arretrate in quanto meglio tolleranti gli abbassamenti di livello. Addossata alla suddetta associazione sta la canna comune (Arundo donax) che forma una cintura discontinua da tempo preposta dagli agricoltori come frangivento; sporadicamente si riscontra la rara canna egiziana, di sicura introduzione, facilmente riconoscibile per i culmi pieni.
La vegetazione litorale è in gran parte costituita dal tamariceto con due specie di tamerici (Tamarix gallica, T. africana) che nella cosiddetta “zona degli acquitrini”, forma una intricata boscaglia periodicamente allagata, habitat ideale per la nidificazione di molti uccelli. Tra la componente erbacea merita menzione il giunco pungente (Juncus acutus) che forma densi cespugli, e il panico strisciante (Panicum repens), una graminacea tipicamente igrofila presente al Biviere in modo consistente.
Gela7La Torre di Manfria
Nel XVI secolo i paesi costieri della Sicilia erano soggetti a frequenti incursioni non solo di nemici, ma anche di corsari africani. Il governo spagnolo pensò prudentemente di proteggere le coste con la costruzione di torri, disposte sul litorale in modo che dall’ una si vedesse l’altra. Gli uomini destinati alla loro custodia avevano il compito di avvertire durante la notte la città più vicina accendendo tanti fuochi quante fossero le navi nemiche, o corsare, viste durante il giorno. Le varie torri comunicavano tutte tra loro, cosicché in meno di un’ora l’avviso di un pericolo incombente faceva il giro dell’isola.
Queste torri, tra cui quella di Manfria, nel territorio di Terranova, furono costruite a partire dal 1554, ad opera del vicerè Giovanni Vega, ed erano alla dipendenza della Deputazione del regno. Il Parlamento Siciliano, nella seduta tenuta a Palermo il 9 aprile 1579, deliberò il finanziamento delle spese di manutenzione delle torri, nonché del salario dei torrieri, della fornitura delle armi necessarie e del relativo munizionamento. In quell’occasione venne stabilita la concessione di un donativo di diecimila scudi annui per questa importante necessità e tutela di tutto il regno.
Oltre a queste torri (in tutto trentasette, dipendenti dalla Deputazione del regno), ne furono costruite delle altre a cura dei Senati della varie città. Sul litorale di Terranova, la torre di Manfria fu eretta nelle vicinanze del Piano della fiera, ove nei secoli passati c’era una famosa città, chiamata dagli storici Ancira, antichissima colonia di Eraclea Meridionale (Gela). Essa si presenta con un’architettura essenziale e volumetricamente regolare e spicca da una pianta quadrata, su un basamento parallelepipedo che serve da innesto ad un tratto a tronco di piramide, sovrastato da un volume chiuso con tetto a due falde. Due affacci diagonali a mensola permettevano ai torrieri di sporgersi oltre le pareti dell’edificio per meglio perlustrare il mare ed effettuare segnalazioni.
La torre di Manfria, detta pure di Ossuna, dal nome del vicerè Pietro Giron, duca di Ossuna, sorge su un poggio, sulla costa alta, a poca distanza dal mare.
Gela8L’Acropoli
L’Acropoli di Gela, posta su un colle dalla forma allungata, dominava la fertile pianura bagnata dal fiume omonimo che veniva utilizzato anche come zona d’ormeggio e come via di penetrazione verso l’interno per le navi. Nella parte occidentale della collina sorgeva invece la Necropoli. L’Acropoli, fino al 405 a.C., ospitò i principali edifici sacri della città dai quali provengono le decorazioni architettoniche e gli ornamenti in pietra conservati nel Museo di Gela.
Nel periodo in cui Gela fu governata da Timoleonte, che ricostruì le mura della città nel 338 a.C. dopo le distruzioni operate dai Cartiginesi nel 405 a.C., l’Acropoli perdette il suo carattere sacro e si popolò di abitazioni disposte sui fianchi del colle opportunamente spianati.
Dalle scoperte archeologiche è scaturito un vero e proprio quartiere cittadino di quel periodo con case e negozi.
All’interno dell’Acropoli, nel cosiddetto Parco delle Rimembranze, sono stati ritrovati i resti di un tempio in stile dorico, il più semplice ordine architettonico greco, caratterizzato da sei colonne sui lati brevi e undici su quelli lunghi.
Più a ovest, in un luogo già abitato e sede di culto in età pre-greca, è stato scoperto un bellissimo tempio dorico dedicato a Athena, la dea greca della scienza.
Gela9Le mura timoleontee
Le fortificazioni greche di Caposoprano, scoperte tra il 1948 e 1954, possono essere considerate uno degli esempi più straordinari e meglio conservati dell’ architettura militare antica. Il muro di cinta si sviluppa per circa 300 metri marginando l’estremità occidentale della collina di Gela e racchiudendo la città greca nel periodo compreso tra il IV e il III sec. a.C. , forse a partire dal momento della sua ricolonizzazione ad opera di Timoleonte fino al momento della sua distruzione ad opera del tiranno agrigentino Phintias.
Qualche studioso ha ritenuto di poter datare la costruzione del muro già alla fine del V sec. a.C. poco prima della presa di Gela da parte dei Cartaginesi; ad età Timoleontea sarebbe, invece, da attribuire solo la sopraelevazione in mattoni crudi. Particolare è la tecnica di costruzione del muro: la parte inferiore, dello spessore di m. 2,80, è in blocchi di pietra arenaria ed è costituita da una doppia cortina di conci squadrati concatenati e con riempimento in mattoni crudi, pietrame e terra; la parte superiore è realizzata in mattoni di argilla cotti al sole. La fase originaria è costituita dal basamento in conci di arenaria, sul quale si sovrappone uno strato di mattoni crudi che al momento della scoperta apparivano di colore verdognolo. L’altezza superstite del muro di questa fase è di metri 2 sul lato meridionale e di metri 3 sul lato settentrionale. In età agatoclea, a seguito di un rapido insabbiamento, si costruì una sovrastruttura in mattoni crudi provvista di merlatura all’esterno e con camminamento di ronda all’interno: i mattoni di questa seconda fase sono di colore più chiaro.
A questo periodo è da riferire anche un tratto del muro a speroni, che si sviluppa a Sud e che originariamente doveva giungere fino allo strapiombo della collina, verso il mare, per impedire l’accesso alla città da questo lato. Un ulteriore insabbiamento, avvenuto poco prima della distruzione della città ad opera di Phintias, determinò un occultamento della struttura e la conseguente aggiunta di altri filari di mattoni crudi, di dimensioni più piccole e di colore più scuro; di quest’ ultima fase è visibile un tratto sostenuto da moderni pilastrini di cemento.
Lungo le mura di cinta sono ricavate, a livello di fondazione, le canalette per lo scolo delle acque mentre nel tratto meridionale si apre, dietro uno spigolo della cortina, una postierla a falso arco acuto, che fu occlusa con i mattoni crudi in età agatoclea; quando fu costruita anche una torretta quadrangolare in prossimità della postierla suddetta, pur essa in mattoni crudi, della quale resta il basamento addossato alla cortina. L’estremo tratto occidentale del muro, che si sviluppa in senso NE-SW e nel quale si apriva in origine, tra il 311 e il 310 a.C., una porta ostruita con materiale lapideo, era difeso da due torri quadrate in mattoni crudi, che sostituirono strutture identiche di età più antica, costruite in blocchi calcarei, ma andate distrutte.
Il Museo Archeologico
Il museo archeologico di Gela fu realizzato nella seconda metà degli anni Cinquanta per conto del Ministero ai LL.PP., con i fondi della Cassa per il Mezzogiorno, su progetto dell’architetto Luigi Pasquarelli. L’edificio fu costruito sotto la direzione dell’architetto Rosario Corriere; l’inaugurazione avvenne il 21 settembre del 1958. La nascita del museo pose fine al pluridecennale dirottamento dei reperti archeologici da Gela in altri musei dell’Isola come ad esempio Palermo, Siracusa e Agrigento. Reperti unici e d’inestimabile valore, scoperti a Gela, si trovano inoltre nei musei di Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Milano, Londra, Oxford, Berlino, New York, Boston, Cambridge, Baltimora, Tampa, Yale, Rhode Island, Basilea, Stoccarda, Vienna, Amburgo, Zurigo, ecc.; senza contare tutti quelli trafugati ed esportati clandestinamente che fanno parte di collezioni private in tutto il mondo.
L’esposizione dei reperti archeologici é ripartita in due piani; nel pianoterra, si trovano i reperti d’epoca protostorica venuti alla luce nel territorio urbano di Gela, nonché quelli d’epoca greca dell’Acropoli, della Nave Greca, dell’Emporio di Bosco Littorio e di Caposoprano. Inoltre, sempre a pianoterra si trova una cospicua serie di vasi attici e corinzi della collezione Navarra ed una numerosa serie di reperti delle necropoli arcaiche del Borgo. Nel piano superiore sono esposti i reperti provenienti dai santuari extraurbani e dai centri d’età protostorica, greca e romana dell’entroterra gelese; nello stesso piano, inoltre, vi sono diverse vetrine contenenti materiali ceramici, vetri e bronzi del periodo medievale della città. Inoltre, recentemente è stata allestita l’esposizione del monetiere costituito da più di 2000 monete che vanno dal V sec. a.C. a Vittorio Emanuele II; la collezione monetale comprende anche il “Tesoro di Gela”, dove si trovano monete greche d’argento, rinvenute nel 1956, riferite alle zecche di Gela, Agrigento, Siracusa, Zancle, Reggio, Acanto ed Atene.
Sempre su questo stesso piano si possono ammirare gli altari di terracotta ritrovati nel dicembre del 1999 nell’area archeologica di Bosco Littorio e un elmo corinzio del VI-V sec. a.C. ritrovato nei fondali del mare di Gela.
Tutto il materiale, costituito da circa 4200 reperti, esposto nel museo é articolato in otto sezioni.
Al piano terra
Sezione I – La storia, la protostoria, l’acropoli, l’emporio e la nave;
Sezione II – L’ Heraion e la città tra il IV ed il III secolo a.C.;
Sezione III – Le fornaci e l’epigrafia;
Sezione IV (indicata come VIII) – Le necropoli greche e le collezioni Navarra e Nocera;
Al primo piano
Sezione V – Le anfore;
Sezione VI – I santuari extra urbani;
Sezione VII – Il territorio dalla protostoria all’età greca;
Sezione VIII – Il territorio dall’età romana a quella medioevale.
Gela10La Chiesa Madre
Nel 1766, sulla superficie prospiciente all’attuale Piazza Umberto I, furono iniziati i lavori per la costruzione della nuova chiesa Madre che fu completata nella prima metà dell’Ottocento; essa si erge a tre navate con cupola e torre campanaria (realizzata nel 1837). Intitolata a Maria Santissima Assunta in Cielo, presenta una pianta a croce latina con schema basilicale.
La facciata principale in stile neo-classico, opera dell’architetto terranovese Giuseppe Di Bartolo Morselli nel 1844, presenta una composizione architettonica articolata in doppio ordine sovrapposto, fortemente rilevato al centro con colonne aggettanti per tre quarti, con ordine dorico alla base e ionico superiormente; nella parte superiore spiccano il frontone adornato di acroteri e la croce oltre ad una placca litica ovoidale con in bassorilievo lo stemma mariano. Due profonde nicchie nel piano superiore, dove sono collocati due vasi, contribuiscono a dare alla facciata stessa una nota di gaiezza.
Nella Madrice si trovano diverse pale dipinte del Settecento e dell’Ottocento (Tresca e Vaccaro sono alcuni degli autori), un notevole dipinto su tavola del 1563 che raffigura il Transito di Maria attribuito a Deodato Guinaccia, alcuni affreschi, tre monumenti (8) e un grande organo del 1939 con 31 canne di facciata, disposte a cuspide; nella canonica, interamente ricostruita nel 1988, sono conservate diverse tele raffiguranti i parroci della chiesa e il Cardinale Panebianco, nonché due pregiate icone, dipinte su tavola con fondo in oro raffiguranti Maria SS. d’Alemanna (o della Manna) con Bambino, patrona di Gela la cui festa ricorre l’8 di settembre, e la Madonna col Bambino attaccato al seno materno.
Infine, nell’archivio sono conservati antichi documenti cartacei, nonchè i registri di morte, battesimo e matrimonio a partire dal 1500.
Gela11La Chiesa di San Biagio
All’interno del recinto del cimitero monumentale di Gela, nelle immediate vicinanze della Biblioteca Comunale e contigua alla chiesetta di S. Nicola da Tolentino, esiste la chiesuola rurale di S. Biagio, da tempo sconsacrata, databile forse ad epoca bizantina; particolarmente interessanti risultano il basso abside, la facciata principale con l’ingresso e il rosone e, all’interno, l’arco trionfale a sesto acuto.
La chiesa di S. Biagio fino al 1873 faceva parte dei beni della Commenda del Principe di Capua; il 3 luglio dello stesso anno fu incamerata dal Demanio dello Stato e successivamente nel 1899 acquistata dal Comune di Gela con la somma di ottocentolire. Aperta al culto fino al 1910, dopo la relativa sconsacrazione, fu adibita a lavatoio per il contiguo ospizio di anziani e poi a camera mortuaria prima di essere completamente abbandonata.
La chiesuola, ridottasi per la vetustà alle sole mura perimetrali, dal 1981 al 1985 ha subito diversi interventi di consolidamento e sistemazione con finanziamenti della Soprintendenza Regionale ai Beni Ambientali e Architettonici e del Comune di Gela. Durante la prima ristrutturazione andò perduta una caratteristica mattonella rossa, posta sopra l’ingresso Sud, con impresso l’anno 1099.
Oggi la chiesetta di S. Biagio è adibita a sala per mostre e conferenze.
Gela12La Chiesa dei Cappuccini
La chiesa dei PP. Cappuccini di Gela, relativamente alla navata centrale, fu edificata nella metà del XIII secolo, mentre le navate laterali di Nord e Sud furono aggiunte rispettivamente nel 1935 e nel 1962.
Nella chiesa si conservano, oltre a diverse antiche statue, un pregiato polittico settecentesco con cornici in legno intarsiato, un’artistica custodia del Divinissimo del XVII secolo, un dipinto su tavola del 1700 raffigurante la Graziosa vergine degli Ammalati , probabilmente opera di Luigi Borremans, e un dipinto attribuito al Paladini (Santa maria della Porziuncola); inoltre, nell’attiguo convento si osserva un dipinto (il Beato Bernardo da Corleone) attribuito ad un pittore della scuola di Guido Reni.
La chiesa dei Cappuccini è dedicata al culto della Madonna delle Grazie la cui festa ricorre il 2 di luglio.
Gela13La Chiesa del Carmine
Fu edificata a Gela assieme all’attiguo convento (quest’ultimo dal 1866 sede della Caserma dei Carabinieri) nei primi decenni del Settecento sullo stesso sito dell’antica chiesa dell’Annunziata del 1514; nel suo interno si conservano, oltre a diverse pale dipinte ed un’acquasantiera del 1571, un Crocifisso del XV secolo, ritenuto miracoloso dalla devota popolazione gelese, un pregiatissimo dipinto su tavola, su fondo oro, della Crocifissione e un organo del 1917 senza canne di facciata con 9 registri.
La festa della Madonna del Carmine ricorre il 16 di luglio.
Gela14La Chiesa del Rosario
La chiesa dei SS. Salvatore e Rosario di Gela è stata edificata  ad unica navata con torre campanaria (del 1810) tra il 1796 e il 1838 sui ruderi di un’altra del XVI secolo; nella cella campanaria, il cui tetto è ricoperto da piastrelle di maiolica colorate, esiste una campana del 1606. La facciata principale, tutta a pietra viva senza intonaco, non presenta nessuna linea architettonica di rilievo, tant’è che si è convinti che essa non fu mai completata; stessa cosa non si può dire per l’interno dove esistono stile e forma architettonica dei primi dell’Ottocento.
Nella chiesa sono conservate diverse pale dipinte, una Via Crucis (1971) del pittore gelese Salvatore Solito, alcuni affreschi, una pregiata acquasantiera e un piccolo organo della seconda metà del XVIII secolo, incluso in un elegante complesso decorativo, con 29 canne di facciata, disposte in tre campate a forma di cuspide, e 10 registri.
Recentemente sotto il pavimento sono venute alla luce diverse antiche sepolture gentilizie. La festa del SS. Rosario ricorre il 7 di ottobre.
Gela15La Chiesa di San Francesco d’Assisi
La chiesa di S. Francesco d’Assisi fu edificata a Gela ad unica navata nel 1659 sui resti di un’altra risalente al 1499; in essa predomina il tardo barocco siciliano ed esistono diverse tele attribuite allo Zoppo di Gangi (la vita di S. Francesco) e al Paladini (il Martirio di Santa Orsola) e al D’Anna (la Deposizione del 1768) oltre ad un’acquasantiera in marmo del XVI secolo probabilmente opera dei Gagini, un gruppo di statue lignee settecentesche e due monumenti marmorei.
Recentemente sono venuti alla luce diversi antichi affreschi e sono stati rimesse in luce le antiche dorature degli altari. La chiesa è dedicata al culto dell’Immacolata Concezione, la cui festa ricorre l’8 di dicembre.
Gela16La Chiesa di San Francesco di Paola
Denominata anche Chiesa del Santo Padre, questo edificio di culto, assieme al contiguo Orfanotrofio “Regina Margherita”, già convento, fu edificato a Gela ad unica navata e torre campanaria nel 1738 dai PP. Minimi di S. Francesco di Paola.
La facciata della chiesa è caratterizzata da un elegante portale in tardo stile barocco su cui sovrasta lo stemma dell’ordine religioso del santo. Nell’interno si conservano diverse statue e alcuni dipinti del Settecento.
Attiguo e comunicante con la chiesa è l’Orfanotrofio Regina Margherita di Gela, un edificio settecentesco con ampio cortile interno, in origine convento dei Padri Minimi, che oltre ad aver ospitato stabilmente delle orfanelle è stato pure sede dell’asilo infantile e di diverse scuole.
Gela17La Chiesa di S. Agostino
Edificata ad unica navata a Gela nel 1439 assieme all’attiguo convento e con la facciata in stile neo-classico realizzata nel 1783, la chiesa conserva diversi dipinti e statue del XVII secolo ed una splendida acquasantiera in marmo del 1541 attribuita ad Antonio Gagini; notevole è anche la Cappella dei Mugnos, antica e nobile famiglia terranovese, del 1613 tutta in intaglio di travertino con colonne tortili e frontone spezzato. La chiesa di Sant’Agostino è dedicata al culto di San Giuseppe la cui festa ricorre il 19 di marzo.
Fonte: www.comune.gela.cl.it

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