Adagiata nel cuore dell’entroterra siciliano nella provincia nissena, ad oltre 750 metri sul livello del mare, Mussomeli domina ad ovest l’area montuosa che separa le province di Caltanissetta e Agrigento, qui sono stati trovati preziosissimi reperti e vasi con decorazioni di pregevole fattura, principalmente nel sito di Polizzello, fondata nel secolo XIV da Manfredi III Chiaramonte che gli diede il nome di Manfreda, fu costituita successivamente in contea aragonese diventando infine un feudo dei Lanza Principi di Trabia, oggi Mussomeli, conta una popolazione di circa 12.000 abitanti con economia locale quasi totalmente dedicata all’agricoltura e all’allevamento, con una genuina produzione di ottimo formaggio pecorino; privilegiata da un clima tutto l’anno mite e da un’aria particolarmente salubre, nel periodo estivo Mussomeli si anima dei numerosi emigrati che ritornano per trascorrervi le vacanze; il suo centro storico di chiara origine medievale con le bellissime chiese, è meta di numerosi turisti domenicali provenienti dalle vicine province; sul sito troverete, i filmati del castello e delle antiche chiese, le foto, bibliografie, ricette di cucina, la storia del castello dalle origini ad oggi, le vie del centro storico.
Cenni Storici
Nell’ 831 sbarcano i musulmani in Sicilia,vanno alla conquista di paesi e campagne e il territorio di Mussomeli, come gran parte dell’isola,diventa scenario di combattimenti. ll paese è fertile e conteso, i musulmani ne fanno un giardino al centro della Sicilia, nella regione tra i fiumi Platani e Salso. Mussomeli diventa araba e fiorita, e la sua terra è divisa per famiglie. Un paese adagiato tra due rocche, da una parte Sutera e dall’altra l’altura dove cinquecento anni dopo Manfredi Chiaramonte erigerà i bastioni e i contrafforti del magnifico castello.
Passano i musulmani, arriva il tempo di Svevi, Angioini, aragonesi ed ecco la prima carta della storia documentale di Mussomeli: è un manoscritto dell’aprile 1392 che stabilisce che re Martino concede a Guglielmo Raimondo Moncada tutti i feudi che in quel momento sono in possesso di Manfredi Chiaramonte, fra questi anche “castrum musumelis”.
Finisce così il XIV° secolo con la dinastia chiaramontana che si disperde e con l’avvicendarsi di altre famiglie nel castello e nel territorio. Dai Moncada ai Castellar (catalani), da Giovanni di Perapertusa (1450) a Federico Ventimiglia (1467), ad Andreotta del Campo, ultimo barone di Mussomeli nel 1548, che poi vendette il feudo a don Cesare Lanza, noto per aver ucciso la figlia adultera, la baronessa di Carini. La dinastia dei Lanza domina per trecento anni, e si arrende solo alla legge del tempo che passa, quando l’era feudale è finita, quando il parlamento siciliano si riunisce a Palermo, a Palazzo dei Normanni il 20 luglio 1812, e decreta l’abolizione dei feudi. Da questo momento anche a Mussomeli i contadini non appartengono più al signore insieme alla terra, come era avvenuto fino a quel tempo. Nel 1820 il paese partecipa alla sua prima rivoluzione e si schiera contro i Borboni, ma è un’insurrezione che finisce male, con una resa.
I patrioti vengono condannati a morte, la repressione borbonica si intensifica. Il 1832 è l’anno delle cavallette, il 1837 quello del colera che uccide cinquecento persone. Mussomeli insorge ancora nel 1848, la mattina del 27 gennaio, con un corteo che percorre le strade gridando “abbasso i Borboni” e si dirige verso la Chiesa Madre dove Don Giuseppe Nigrelli, sul pulpito col fucile in mano, arringa la folla, ma anche questa volta la rivoluzione fallisce. Dodici anni dopo c’è la carica travolgente di Garibaldi e dell’unità d’Italia e da allora si corre verso il Novecento. Nel 1871 l’illuminazione pubblica con i fanali a petrolio, nel 1893 le prime manifestazioni socialiste contro i vecchi liberali, l’anno dopo lo scioglimento dei fasci siciliani deciso a Roma da Francesco Crispi. A Mussomeli il tribunale militare condanna al confino l’ideologo del socialismo locale, il dottor Cataldo Lima, i liberali hanno ancora un quarto di secolo prima della guerra del 1915-18 Il resto è storia recente.
Il Castello di Mussomeli
Le più importanti costruzioni del castello di Mussomeli si debbono a Manfredi di Chiaramonte : i Castellar lo completarono nel modo come a noi venne conservato.
A circa un miglio di distanza, a levante dell’ abitato, trovò Manfredi una rupe di eccelsa e pittoresca mole, le cui fronti, tutte a picco e inaccessibili, meno che a tramontana, le davano l’aspetto d’una naturale fortezza.
Su quella forte roccia, che domina tutta intorno la sottostante valle, e da cui si spazia lo sguardo su vasti orizzonti, Manfredi di Chiaramonte seppe innalzare opere tali di difesa e di comodità, da fame uno dei più interessanti castelli dell’isola, il monumento più prezioso che di quel periodo, così geniale in arte come cavalleresco nell’azione, rimase agli abitanti di Mussomeli.
Aggiriamoci un po’ fra quelle antiche vestigia, e senza sforzo di fantasia potremo ricostruire in tutte le sue parti il monumentale edificio, qual’era nei tempi del suo massimo splendore.
L’unica salita che ci si presenta è quella di tramontana, costituita da una strada a gomito e a giravolte.
Dopo aver percorso un sentiero, che si stacca dalla strada rotabile provinciale per Villalba, troviamo in fondo di esso, con esposizione a nord, le vestigia, appena visibili, delle esterne costruzioni, fra cui certamente quella saracinesca o quel ponte levatoio che costituiva nei castelli l’opera di prima difesa.
Alla prima svolta, salendo per una via erta, si presenta al nostro sguardo la porta del recinto inferiore. L’edificio è nello stile ogivale, che conservò il suo imperio fino a tutto il secolo XIV°, come ne fan fede quegli splendidi monumenti che sono a Palermo il Palazzo Chiaramonte ed il Palazzo Sclafani.
Da questo punto noi possiamo ammirare la compattezza delle fabbriche, dovute alla buona qualità della malta e della pietra cavata dalla stessa roccia, l’uso abbondante di pietrame a spigolo vivo, specialmente nei piedritti, negli archi e nelle cantonate, requisiti tutti per cui il castello, nonostante il lungo abbandono, ha potuto resistere alle ingiurie di ben cinque secoli.
Ai due lati della porta d’ingresso, e propriamente presso i punti sui quali s’imposta l’arco a sesto acuto, un accurato osservatore scorgerà due stemmi intagliati sopra dadi della stessa pietra, che, per la sua poca resistenza, non ha conservata bene l’antica impronta.
Il dado, a destra di chi guarda, porta scolpito un giglio senza altri accessori, poiché il giglio occupa buona parte del quadrato, e la scultura non continua nei dadi adiacenti. Lo stesso disegno pare che porti il dado di sinistra, ma non si rileva chiaramente.
Che cosa rappresenti quel giglio non è facile spiegare, dopodiché, passati in rassegna gli stemmi di coloro che tennero la signoria di Mussomeli, nessuno di questi stemmi ha una lontana somiglianza coi rilievi che noi vediamo ai lati della porta.
Non sarà assurdo il congetturare che in origine quei due dadi portassero le armi dei Chiaramonte, consistenti, come abbiamo detto, in un monte dalle cinque cime rotonde a mo di ventaglio: cosa più che naturale se si riflette, che chi costruì il castello, con tanto lusso ed esattezza di particolari, doveva pur lasciare impresso in qualche punto e specialmente nella porta principale lo stemma di sua famiglia.
Caduti i Chiaramonte, si volle disperdere anche qui qualsiasi traccia della loro potenza, e al monte dalle cinque cime a forma di ventaglio si sostituì un giglio, facendo sparire le estreme e basse cime, e modificando le tre alte.
Quel giglio fu messo lì a rappresentare probabilmente il dominio di Don Giaimo de Prades, dappoiché, come ci attesta l’Inveges, i due stemmi che si attribuiscono ai Prades portano entrambi, sparsi nel campo, diversi gigli.
E se, invece del vero stemma, un solo giglio rimase, come simbolo, a rappresentare la famiglia, ciò non dovrà recar meraviglia, in quanto non sarà stato facile trovare in quei tempi a Mussomeli un intagliatore così esperto da mutare uno stemma in un altro di forma del tutto diversa.
Da un lato e dall’altro della porta, mura alte e robuste, coronate di merli, seguono la giacitura e le accidentalità della roccia, rendendo difficile l’approccio da questo lato di tramontana, il solo che avesse avuto bisogno di opere di difesa.
È quindi naturale che questo primo recinto, tanto essenziale alla sicurezza del castello, sia stata opera del Chiaramente, che fu appunto il fondatore della fortezza.
Entrando nel primo spazio scoperto, che si stende fra le mura e gli altri fabbricati, noi possiamo in tutte le sue parti attentamente osservare la maestosa e solida costruzione del muro esterno, del parapetto, della merlatura, delle feritoie, opere tutte che ridestano i ricordi delle emozionanti difese dei soldati di acciaio nell’epico periodo del Dinanzi la porta del primo recinto si trova la scuderia che, nella sua vasta dimensione di m. 37 per m. 6,50, è capace di contenere comodamente cinquanta cavalli.
Nel muro a nord, che fa parte della cinta esterna, si aprono quattro feritoie che, con le finestre del muro di ponente, servono altresì ad illuminare l’immenso vano.
Nel muro di mezzogiorno, insieme ad una finestra che aggiunge luce alla scuderia, sono diligentemente incavati sette piccoli armadi, ed un altro più grande se ne osserva presso la porta.
Sopra la stalla stendesi il fienile e, sui muri esterni di tramontana e di ponente, la stessa linea di merli corona poderosamente quel vasto fabbricato.
Salendo per una strada serpentina alla parte superiore del castello, al secondo recinto, alti e robusti muri s’impongono alla nostra osservazione.
Per lo stato migliore di conservazione e, direi quasi, per una certa freschezza d’insieme, riteniamo dover questi rimontare ad un’epoca posteriore a quella in cui vennero eseguite le fabbriche a valle, pur non essendo diverso lo stile architettonico.
Ciò è anche dimostrato dallo stemma che si trova ai due lati della porta, formato da un castello con tre torri merlati: è lo stemma della famiglia Castellar; a cui feudalesimo medievale, si debbono evidentemente queste ulteriori costruzioni.
Ma un altro stemma che trovasi sopra la porta pone l’osservatore nell’imbarazzo. Il disegno non si rileva in tutte le sue linee, e la scultura è logora per la poca resistenza della pietra adoperata. Potrebbero essere le armi della famiglia Del Campo, che dopo i Ventimiglia tenne per circa un secolo la signoria di Mussomeli: scudo partito con tre aquile. Un’aquila infatti vi si potrebbe raffigurare: le altre due debbano aggiungersi con l’immaginazione.
È indubitato che quello stemma appartenga ad un periodo posteriore a, quello in cui venne costruita la porta cui fa corona: il dado di pietra infatti, sul quale esso venne scolpito, è così poco aderente alle circostanti pietre intagliate, che mostra evidentemente di essere stato colato incastrato da taluno come ai due stemmi del Castellar volle aggiungere il suo.Ora, non somigliando esso allo stemma dei Ventimiglia, “campo diviso in rosso ed oro”, né a quello dei Lanza, ” leone nero rampante in campo di oro e rosso”, chi poteva se non la famiglia Del Campo lasciare su quella porta l’impronta del dominio.
Occorre poi riflettere che, se espertissimi furono gli artefici che fabbricarono il castello, lo stesso giudizio non potremmo dare di tutti coloro che eseguirono le opere di fino intaglio, talune delle quali lasciano non poco a desiderare: e ciò spiega come non si possa negli stemmi, che qui si vengono, ritrovare il disegno preciso.
La porta che abbiamo osservato e che per forma e dimensione somiglia a quella del primo recinto, immette in un atrio scoperto e chiuso ad oriente da un alto muro, in cui si vengono delle feritoie, una nicchia con sedile e una scaletta sporgente, che poteva anche servire di vedetta.
A ponente vedendosi le balze scoscese della roccia che si eleva ancora a considerevole altezza, e in fondo, a mezzogiorno, gli appartamenti signorili.
Un arco a sesto acuto divide l’atrio scoperto da un vestibolo, attorniato da sedili, che immette in un’altra stanza quasi uguale alla precedente, e questa in una terza, bipartita da un arco. La piccola dimensione degli usci comunicanti dimostra chiaramente che queste erano stanze di passaggio e di servizio: eppure, prima ancora d’inoltrarci nelle sale signorili, sentiamo già in quelle palpitare la vita dei secoli lontani: scudieri, armigeri e servi sdraiati sui sedili in attesa degli ordini del signore; muri ricoperti di lance, di sciabole, di moschetti; armadi pieni di giberne, di giavellotti e di arredi di ogni sorta si presentano con vivezza di colori alla nostra calda immaginazione, come se nessuna offesa avesse ivi apportata l’ opera distruttrice del tempo.
Nel fondo dell’ultimo vano, l’ampia porta che conduce alle sale signorili, costruita con tutte le regole dell’arte, dopo il passaggio obbligato di due porticine basse, quasi segrete, costituisce una discordanza architettonica, che non si potrebbe in altro modo spiegare, a nostro giudizio, se non congetturando che prime a sorgere siano state le sale signorili, alle quali si accedeva direttamente dall’atrio scoperto, e che le stanze d’accesso siano state costruite dopo.
Entrando nelle stanze signorili, ci troviamo interamente sotto l’impero dell’architettura ogivale, ed il carattere generale della costruzione ci richiama ai monumenti del secolo XIV°.
A cominciare dalla prima stanza sono da ammirare i robusti archi ogivali a costolone, i quali, impostando su quattro mezze colonne, piantate agli angoli della sala, decorano gli spigoli della grande volta a crociera.
I pilastri e i costoloni sono di pietra d’intaglio; i capitelli sono decorati a fogliame, di lavoro non fine, ma non privo di carattere artistico ; e le graziose ed esattissime sagome sono eloquente dimostrazione del gusto dei tempi e dell’abilità degli artefici. Presso all’angolo sud-est si apre nel muro di mezzogiorno una grande finestra bifora, che ricorda quelle splendidissime del palazzo Steri di Palermo, e quelle più semplici della villa dei Chiaramonte alla Guadagna.
La finestra ha nel suo vano due sedili, l’uno di contro all’altro : quivi noi, riposando il corpo stanco dalla faticosa salita, possiamo contemplare, nel suggestivo silenzio della campagna, lo splendido panorama che si stende sotto i nostri sguardi: i dolci e verdi pendii, il fondo luccicante della valle, i gioghi opposti, rotti da profondi dirupi, e più in là, nella loro grigia tinta, altri monti, altre terre, altri paesi, e ancor più lontano, nel suo splendore di neve, la vasta piramide dell’Etna.
E intanto, in questa estatica contemplazione, ci sentiamo attratti da una forza misteriosa, che, richiamando lo spirito ad un dolce raccoglimento, ci fa sentire la voce dei secoli, che hanno lasciato orme di splendore in questo inanime, ma pur tanto eloquente, avanzo del passato.
Questa prima stanza sembra che fosse stata destinata al desinare, come lo dimostra la piccola cucina adiacente, che per il sito e le sue piccole dimensioni non poteva essere la sola cucina del castello.
Nel passaggio fra questa stanza e quella di destra, una piccola scala conduce ad un sotterraneo e ad una latrina dalla porta civettuola, di stile moresco: un capriccio dell’architetto, che non induce certamente ad attribuire agli arabi tale costruzione.
Il grande vano di destra, l’ultimo dal lato di ponente, era la camera da letto dell’appartamento, è coperta da due volte a crociera, divise fra loro da un arco mediano a costole rilevate ; e gli archi posano sopra sei mezze colonne, di cui le quattro agli angoli sono quasi uguali a quelle della stanza precedente, e le due nel mezzo di base più larga.
Ammirasi nel muro di mezzogiorno una finestra uguale a quella dianzi osservata, in quello di ponente un’ altra finestra murata, e dirimpetto, l’accesso ad una piccola latrina che è all’altra soprastante.
Due armadietti incavati nei muri, non diversi da quelli che abbiamo prima osservati, completano gli agi della camera destinata al riposo : arido conforto invero in tanta ricchezza di architettura.
A sinistra della stanza che chiameremo da pranzo, trovasi la sala di convegno o di ricevimento,nulla di diverso richiama qui la nostra attenzione, fuorché un grande camino, incavato nel muro di tramontana, che per la sua forma richiama alla memoria quelli splendidissimi che s’ammirano nel Castello del Monte presso Corato, costruito da Federico lo Svevo per i suoi passatempi di caccia.
Nello stesso muro, in alto, un’apertura a forma dì feritoia comunica con una delle stanze di servizio, che abbiamo dianzi attraversate.
Quella feritoia non fu aperta lì a casaccio, e dovette un giorno compiere naturalmente il suo ufficio di vedetta e difesa.
Ciò viene a confermare la nostra induzione, che a nord delle sale signorili si fosse dapprima prolungato l’atrio scoperto, e che soltanto nelle costruzioni ulteriori fosse stato quello spazio diviso in tre vani.
Una piccola porta nel muro di levante, presso il camino, mena in una stanzetta di superficie triangolare, che per una ripida scaletta comunica con un’altra, sovrastante, della medesima dimensione.
Quest’ ultima è oggi chiamata la camera delle tre donne per un’ antica leggenda carezzata dagli abitanti di Mussomeli.
Narrasi infatti, che abitava un giorno quel castello un ricco e potente signore, il quale aveva tre sorelle, belle come Dio potè farle.
Dovendo egli recarsi alla guerra e non avendo chi lasciare alla custodia di esse, pensò di chiuderle in questa camera, lasciando loro, per mantenersi, pane, farina, vino, polli e tutto quello che avrebbero potuto desiderare, murò le porte e partì.
La guerra durò più del tempo che egli aveva previsto; e al ritorno suo primo pensiero fu quello di andare a trovare le sorelle : ma quale non fu il suo dolore quando, smurate le porte, le vide tutte e tre distese a terra, morte dalla fame, e colle suole delle scarpe in bocca. D’allora in poi quella stanza venne chiamata la “cammara di li tri donni”, ed il popolo le rimpiange tuttora le povere “tri donni”. Questa leggenda non è che una versione di quella narrata dal Pitrè, e la cui scena è nei sotterranei del Palazzo reale dj Palermo il fenomeno assai frequente nella storia delle tradizioni popolari, dappoiché il popolo, nella sua fantasia, spesso attribuisce ai propri luoghi ciò che ha inteso un giorno raccontare, e che ricorda confusamente.
Dalla stanzetta triangolare sottostante, che prende luce da una feritoia, si passa nella grande sala del castello per mezzo d’ un piccolo uscio, uguale a quello che divide la stanzetta medesima dalla sala di convegno ; ma la porta principale per cui si accedeva in essa, non è questa; è quella, molto artistica, che si apre nel piccolo vestibolo, che segue l’atrio scoperto e precede le stanze di servizio. Questa disposizione di porte mostra che chi costruì le tre stanze, da noi visitate, non ebbe allora l’intendimento di aggiungervi questa grande sala, altrimenti avrebbe lasciata una comunicazione di maggior rilievo, e non avrebbe da questa parte chiuso l’edificio con quella stanzetta triangolare destinata certamente a modesti bisogni.
Riteniamo quindi che la grande sala appartenga ad un’epoca posteriore, nella quale probabilmente vennero anche costruiti i tre vani di accesso alle sale signorili. essa è infatti di una costruzione alquanto diversa dalle altre, ed è forse per ciò che pagò il suo tributo al tempo demolitore colla rovina del tetto e del solaio.
La maggior differenza è nel tetto, che, mancando ogni vestigia di colonne e di costoloni, o altro segno di volta ad arco, dovette essere piano e a grandi travature, come quello che si ammira tuttora nella vasta sala del palazzo Steri, fabbricata da Manfredi III° di Chiaramonte. La grande sala del castello, che misura 18 metri di lunghezza e 6 di larghezza, è illuminata da due finestre, che non sono precisamente uguali alle altre, con cui pure allo esterno sono nella stessa linea, ma, benché bifore anch’ esse, hanno dimensioni diverse, ciò che confermerebbe la differente età di costruzione.
Non sappiamo però se questo avancorpo fosse opera dello stesso Manfredi, che iniziò la costruzione del castello, o dei Castellar che lo completarono.
Nel primo caso sarebbe accettabile la tradizione, tuttora viva nel paese, che appunto in quella sala avesse avuto luogo l’adunanza dei Baroni indetta da Manfredi nel 1391, prima che avvenisse quella decisiva di Castronovo.
Il Tutto in verità contribuisce ad accreditare tale tradizione, E quale sala avrebbe potuto trovarsi, nell’interno dell’isola, più vasta, più bella, più maestosa, per riunire il fiore della nobiltà siciliana.
Ritornando per la grande e bellissima porta nell’atrio scoperto, forse un giorno destinato a giardino, presso il piedritto sinistro dell’arco di comunicazione, avvi una scala per cui si discende nei sotterranei.
Stendonsi questi al di sotto delle stanze che abbiamo percorso, in parte costruiti in malta e pietrame, in parte scavati nel vivo sasso; taluni illuminati da poche feritoie o da qualche lucernario, altri interamente al buio.
Il popolo, nella sua fantasia, chiamando camera oscura uno di questi sotterranei, lo ritiene il luogo destinato da quei tirannotti ai più esacrandi delitti. Questi vani invece costituivano il comodo del castello, e servivano per abitazione di domestici ed uomini d’ armi, per magazzini, per cantine e per altri usi di servizio.
Non possiamo dilungarci a descrivere i tanti particolari interessantissimi di questo singolare edificio, perché usciremmo troppo dai limiti di una memoria storica ; ma non possiamo esimerci da! condurre ancora il lettore in due altri edifici isolati, l’uno e l’altro, per diverse ragioni, degnissimi di essere illustrati.
Dall’atrio scoperto, per una breve ed erta strada a gomito, si sale nella chiesetta o cappella, che ha una porta a sud ben decorata, sul genere di quella della chiesa di S. Francesco della città di Palermo e di molte altre di quell’età.
Il tempo però corrose i fini intagli di quella pietra poco resistente, in modo che a mala pena si può oggi distinguere l’elegante disegno.
Il tetto, come quello della camera da letto, è formato da due volte a crociera divise da un arco mediano.
La estensione della cappella è di circa m. 10 per m. 4,70, L’altare è nello stesso stile ogivale, e le colonnette degli angoli sono di elegante struttura.
Le bruttissime sovrapposizioni in gesso, vera profanazione dell’arte, sono di epoca molto posteriore, e furono eseguite per conformare l’altare alle prescrizioni del Sinodo, siccome fu volontà d’un canonico di Girgenti quivi venuto, nel 1614, in visita pastorale. Nei muri della chiesa si aprono finestre-feritoie, più pel passaggio dell’aria e della luce che per uso di difesa. Nel muro dirimpetto all’altare, presso una finestra, dai lati spezzati in modo da formare molti angoli retti, una scala a chiocciola, ben disposta, mena ad una stanzetta, alloggio forse del cappellano o del custode.
Non si sa a quale santo fosse stata nei primi tempi dedicata quella chiesetta, dove più tardi fu venerata, come vedremo, la Madonna della Catena, ma poco importa: in quei secoli pieni di misticismo e di sacro terrore per i minacciati fulmini del Cielo, quel luogo accomunava tutti, signori e vassalli, padroni e servi, ricchi e poveri, in una stessa fede, in una stessa preghiera, e dinnanzi alla suprema maestà di Dio si temperavano le disuguaglianze sociali.
Uscendo dalla chiesa e salendo ancora per una più erta e faticosa strada si giunge al culmine della rocca.
Trovasi ivi un fabbricato saldissimo, di superficie rettangolare, le cui mura misurano uno spessore di m. 1,80. L’edificio, coronato di merli, oggi distrutti, pare non avesse avuto tetto.
Nel centro del muro di tramontana si apre una finestra, ed a fianco, presso l’angolo, una feritoia: nulla esiste invece negli altri muri, fuorché una porta in quello di ponente; e non vi sono fabbricati accessori.
I Mussomelesi chiamano questo fabbricato il mulino a vento; ma noi non abbiamo trovato vestigia di mulino, nemmeno pezzi di quella ruota, che doveva essere voluminosa e potente per resistere al vento, che ivi soffia impetuoso. Stimiamo piuttosto che, mulino o no, fosse stato destinato a posto di vedetta e di suprema difesa.
Ed è quello un punto veramente inespugnabile.
Di là, scorrendo attorno lo sguardo, si poteva d’ogni lato scorgere il nemico un’ora prima che arrivasse.
La strada, che dai piedi della rocca sale lassù, come un nastro serpeggiante, è tutta lì sotto; e dietro i merli, e dalle finestre, e dalle feritoie, sporgenti appunto nel solo fianco accessibile della rocca, potevano gli armigeri del signore, come nel castello dell’ Innominato, puntare cento volte le armi contro gli invasori e, prima che uno di essi toccasse la cima, farne ruzzolare a fondo parecchi.
Una compagnia di soldati, ivi afforzata, avrebbe potuto in quei tempi esser presa per fame o per tradimento, giammai per virtù d’armi.
Non senza ragione Giovanni Adria, medico di Carlo V°, scrivendo di Mussomeli nel secolo XVI, definiva questo castello : eminens, forte, pulcrum, cum par non invenitur in hac regione.
|TESTO TRATTO DA “MUSSOMELI: DALL’ORIGINE ALL’ABOLIZIONE DELLA FEUDALITA'” DI GIUSEPPE SORGE|
Cenni di Archeologia
Il territorio di Mussomeli era abitato, fin dall’antichità, da popolazioni indigene, come dimostrano le tombe scavate nella roccia, che è possibile vedere in alcune zone intorno al paese. A Polizzello si possono vedere numerose grotte, che per la loro forma e la loro dimensione sono dette a forno. Questi sepolcri richiamano alla mente altri sepolcri simili presenti in altre zone della Sicilia, come la necropoli di Gibil-Abib, vicino Caltanissetta. In contrada Raffe è possibile cogliere la
testimonianza di forme di civiltà successive, risalenti al periodo della penetrazione nell’interno della Sicilia dei Greci di Agrigento e al tempo in cui i Romani dominarono sull’isola. Il ricco materiale archeologico della contrada non ha mai conosciuto la strada dei musei, ma spesso è stato oggetto di speculazione da parte di tombaroli clandestini, che sistematicamente hanno messo a soqquadro la zona asportando tutto quello che c’era. I primi abitanti di Mussomeli furono dei pacifici agricoltori, che si preoccupavano esclusivamente della terra incuranti degli avvenimenti. Il villaggio, (ancora non è possibile parlare di paese) non aveva particolare importanza strategica e quindi non fu teatro di azioni di guerra, come la vicina fortezza di Sutera, che dovette lottare resistere e soccombere contro tutti i dominatori che si avvicendarono nel tempo.
Nella Montagna Raffe, che è alta 460 metri a sud di Mussomeli fra il fiume Salito, e la contrada Buonanotte, proprio nel pendio di mezzogiorno, si sono ritrovate molte monete dell’epoca greca e rottami di vasi e lucerne.
Nella stessa località si osserva la pianta circolare di un edificio.
Molti anni addietro, un contadino trovò due verghe d’oro che vendette per 60
onze, nonchè una piccola anfora di vetro, che dalla descrizione sembra uguale a quella proveniente dal territorio di Sutera, e che si conserva nel museo di Palermo.
Quest’alto monte che si eleva a picco, e che solo a sud presenta una salita scoscesa, sembra nella sua aspra forma destinata dalla natura ad essere inespugnabile, e come una fortezza naturale, usata da quella gente, cui faceva bisogno un luogo di difesa.
Non è improbabile che le grandi cisterne esistenti nella contrada Raffe rimontino anche all’epoca dei Romani, nella considerazione che costoro curando molta la costruzione di tali opere, e che son rinomati i condotti d’acqua, i bagni, le piscine, non meno che i pozzi e le cisterne di quell’età.
Inoltre le diverse lucerne ivi trovate accennerebbero al primo periodo dell’età cristiana, essendo uso di quei tempi di porre nelle tombe, accanto al cadavere, una lucerna fittile.
Molti reperti sono stati ritrovati in epoca anche recente, da tombaroli improvvisati, che in barba alle leggi, e approfittando che la zona non fosse controllata, si sono appropriati di reperti di grande valore archeologico.
Chiesa Madre
Iniziata sotto il dominio dei Lanza con una sola navata, nel 1614 la Madrice è ancora in fase di realizzazione.
Viene rimaneggiata nel 1682 e nel 1728, verso la metà del 700 le navate laterali non sono ancora ultimate.
Edificio ormai completo, come lo vediamo oggi, ma è già tempo dei primi interventi di restauro e alla fine dello stesso secolo vengono rifatti il campanile e il pavimento.
Maestosa e al tempo stesso aerea nel suo campanile a vela, la chiesa porta nella sua storia architettonica il segno di interventi sovrapposti e del succedersi di fabbriche diverse.
A fianco della Chiesa Madre, nella stessa piazza si trova l’edificio dell’Arciconfraternita del Santissimo: qui è conservata l’urna che la sera del Venerdì Santo attraversa la piazza Grande gremita di fedeli mentre i confrati con la cappa rossa sul saio bianco accompagnano il Cristo al Calvario e ritmano le lamentazioni.
All’interno si possono ammirare diversi dipinti tra cui quello della volta centrale opera del pittore Mussomelese Salvatore Randazzo che ne curò un restauro intorno agli anni 50.
Vi sono custodite inoltre dipinti e statue di un certo valore che vanno dal XV° al XVI° secolo.
Alcune di queste opere sono attribuite al Bagnasco.
Chiesa della Madonna dei Miracoli
L’attuale chiesa della Madonna dei Miracoli, una costruzione barocca che risale alla metà del settecento ed è opera dei padri domenicani, ha al suo interno una Madonna con bambino dipinta su pietra che ancora oggi accoglie i fedeli nella cripta del santuario è stata restaurata nel 700 dal pittore Domenico Provenzani di Palma di Montechiaro.
Sempre di Provenzani si ammirano un grande affresco sulla volta, firmata e datata 1792, due pale d’altare e, in sacrestia, il ritratto del domenicano padre Biondolillo.
Nel santuario si conservano alcune statue in legno, sono le opere ottocentesche del maestro Francesco Biancardi: una Madonna dei Miracoli sull’altare maggiore e una Madonna del Rosario in sacrestia.
Più antichi, risalgono al 500, il San Giuseppe che è esposto in una cappella laterale e un’altra Madonna dei Miracoli conservata nella cripta, l’annesso convento dei domenicani, ristrutturato, conserva il fascino del monastero ma non ospita più i religiosi, l’attuale chiostro San Domenico è adibito a iniziative culturali ed espositive, presso la sala Randazzo “Palacultura San Domenico”.
Chiesa di S. Margherita
La Chiesa di Santa Margherita ubicata nel quartiere della Madrice, si trova a poca distanza dalla Chiesa Madre, ovvero una delle Chiese più antiche del paese fu costruita nella prima metà del XIV° secolo nel quartiere di Terravecchia. Nella seconda metà del XVII° sec. fu ricostruita per volere di Don Giuseppe Langela, nobile locale nel 1739, venne affidata alla Compagnia dei Verdi, costituita dai nobili e dai notabili della città che la elesse a proprio luogo di culto. Attualmente la chiesa è chiusa al culto in quanto risulta inagibile, per le pessime condizioni di conservazione e di manutenzione deplorevoli, all’esterno il monumento si presenta più dignitoso grazie ai lavori di consolidamento e restauro effettuati negli anni 80, che hanno salvaguardato il solo aspetto esteriore del manufatto architettonico; pertanto oggi necessita di solo intervento manutentivo. L’esterno ricalca i tipici modelli rinascimentali. Nella nicchia posta sopra il portone di ingresso, fino ai primi anni del ‘900 vi era una statua di Santa Margherita, opera in alabastro del XVI° secolo. Un campanile spicca sul lato destro della facciata, adesso senza campana. La chiesa ha un unica navata coperta con volta a botte lunettata. L’interno ha delle decorazioni in stucco di ordine dorico, i lavori di restauro della chiesa sono stati finanziati dalla Soprintendenza Bca di Caltanissetta.
Chiesa di S. Giovanni
Intorno alla sua costruzione la data precisa non è sicura ma ci basiamo su un documento confraternale del 1558, del notaio Giuseppe La Muta, in cui si parla della Chiesa e della Confraternita come una realtà già ampiamente consolidata.
Da ciò segue che la chiesa fu edificata in una data anteriore a quella del documento.
Uno storico mussomelese il “Sorge” dice che la chiesa di San Giovanni esiste da tempo immemorabile nel quartiere “Casale”, quindi si può determinare la sua costruzione tra il 1467 e i primi del 1500 circa, all’epoca, dunque, della famiglia dei “Campo”. L’antica Chiesa era ad una sola navata costruita per soddisfare i bisogni confraternali e spirituali. Non riuscendo a soddisfare i bisogni del Casale, perchè troppo piccola, intorno al 1600 la Chiesa fu ampliata cambiando topograficamente forma. Questo progetto venne finanziato dalla confraternita del SS.mo Sacramento di San Giovanni, dai lasciti e dai fedeli. Verso la seconda metà del 1700 il principe Don Giuseppe Lanza, conte di Mussomeli, dispose le riparazioni della volta e del tetto e nello stesso periodo vennero mutate le antiche colonne in pilastri a base quadrata, poi rivestite di stucchi in stile ionico.
L’INTERNO – La Chiesa, come si può notare, è molto ampia a tre navate, e nell’armoniosità del suo stile classico spiccano i marmi policromi, gli stucchi e le preziose opere d’arte in essa contenute, come quadri e sculture. E’ opportuno evidenziare il maestoso ed elegante pulpito in legno, risalente al 1700, e l’imponente organo a canne la cui parte esterna risale al 1700 e l’interno, costruito dall’organaro Filippo di Blasi, risale al 1811, da non dimenticare, inoltre, è la portantina in legno la cui datazione risale al 1700.
Sono degne di attenzione le quattordici stazioni della Via Crucis per il loro valore artistico risalenti al 1700-1800.
LA VOLTA E L’ABSIDE – Intorno agli anni 50, la volta, venne rifatta dalla ditta Fraterrigo da Palermo dipinta dal nostro compaesano Salvatore Randazzo (1952-1953).
In essa è raffigurata la vita del Battista (l’annunciazione – la predicazione – la visita ad Erode Antipa – la prigionia – la glorificazione), mentre nelle lunette delle finestre sono raffigurati i dodici apostoli, procedendo verso l’abside, il cupolone è originale, decorato con riquadri floreali di grande valore artistico, dipinto da Salvatore Bulgarelli, allievo del Velasquez e le pareti laterali, dal cornicione in giù sono stati dipinti da Giuseppe Sala, il bolognese. Troneggiano in alto alle quattro colonne di stile corinzio, due angeli, uno con la tromba simbolo del giudizio, l’altro con la bandiera simbolo della vittoria sulla morte.
IL PAVIMENTO – Il precedente pavimento venne costruito a spese di casa Trabia, intorno al 1804, dove al centro vi era lo stemma principesco. L’odierno pavimento a scacchiera venne fatto nel 1906 per volere del parroco Don Pasquale Mulè, col contributo dei parrocchiani. Sotto il pavimento della navata centrale si trova parte dell’antica cripta che veniva usata per la sepoltura dei defunti, e nelle navate laterali sono presenti altre sepolture.
IL PROSPETTO ESTERNO – L’antico progetto prevedeva due campanili, ma non fu possibile per motivi di instabilità, la Chiesa oggi è con un solo campanile, costruito nel 1700 e intagliato dal mastro Mussotto Francesco di Agrigento, nei secoli anche la facciata è stato al centro di modifiche.
LA PARROCCHIA DI SAN GIOVANNI – Era succursale già nel 1581, poi nel 1924 divenne parrocchia autonoma e nel 1958 venne consacrata da Monsignor Francesco Monaco, fanno parte della giurisdizione parrocchiale due chiese: il Santuario della Madonna dei Miracoli, e la Chiesa di Santa Maria di Gesù.
Nella Chiesa di San Giovanni è esposto un crocifisso che pare sia stato realizzato da Frate Umile da Petralia, una scultura di San Calogero, una statua dell’Addolorata opera del Biancardi realizzata nel 1875. La chiesa di San Giovanni risale ai primi decenni del 500. Nel 1795 la volta è stata dipinta dal pittore Palermitano Salvatore Bulgarelli, vi sono pure due tele di Fra Felice di Sanbuca che raffigurano la morte del Giusto e quella del Peccatore, il pavimento è stato rifatto nel 1804 con 9600 mattoni della fabbrica Palermitana Malvica, sita in Piazza del Popolo.
Chiesa della Madonna di Trapani
Fondata nel 1737 da Don Baldassarre Minneci, la Chiesa della Madonna di Trapani si trova vicino alla fontana dell’Annivina. Nella Chiesa, l’altare è formato da due colonne tortili e da un coronamento ricco di stucchi, dove è esposta la statua di Maria SS.
Il pavimento è formato con mattoni in ceramica, dove al centro vi è lo stemma dalla famiglia Minneci, che raffigura un leone rampante. Sullo stesso pavimento vi è scritta una data, 1837. La Chiesa al momento non è agibile e necessita di lavori di restauro.
Chiesa del Collegio di Maria
La Chiesa del Collegio di Maria fu edificata nel 1682 ha pianta longitudinale ad unica navata con volte a botte.
L’interno è rivestito con decori in stucco, vi sono i quadri dell’Annunciazione, della Natività, dell’Incoronazione della Vergine, della Madonna del Rosario, di San Benedetto e di San Michele e il quadro della Madonna del lume.
Chiesa di Cristo Re
La Chiesa di Cristo Re è di recente costruzione, edificata l’8 settembre 1979, fu all’inizio un prefabbricato di 160 mq che poteva contenere poco più di 200 persone.
Nel 1985 fu posta la prima pietra del nuovo edificio, progettata dall’Arch. Ferdinando Fiandaca, terminati i lavori, il 21 settembre 1994 il nuovo complesso parrocchiale fu aperto ai fedeli.
La chiesa ha una struttura a pianta irregolare, che comprende un’aula per le celebrazioni eucaristiche e la “Cappella del Santissimo”, con un prezioso e sontuoso tabernacolo. L’immagine principale dell’aula è un grande affresco di 8m x 5m che copre una parete di 40 mq.
Vi è rappresentato Gesù che viene nella sua gloria insieme agli Angeli, ai Santi e agli Apostoli Pietro e Paolo, il Cristo tiene in mano un libro con la scritta “Amate i vostri nemici; Vengo presto”. Nella chiesa sono esposti alla venerazione una statua in bronzo di San Giuda Taddeo, un Crocifisso ligneo del 1700 di autore ignoto, una statua moderna di S. Giuseppe, una statua della Madonna Mater Dei di fine ‘700 e un’altra, sempre moderna, di Santa Rita nel 1979.
Fonte: www.comunedimussomeli.it – www.mussomelilive.altervista.org
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