Attorno alla rupe gessosa, conosciuta con il nome di Monte San Paolino, quasi a rappresentare un colliere di pietre antiche, è dislocata, la blasonata città, demaniale, di Sutera.
Un paese ormai di mille e cinquecento abitanti, con case ammonticchiate le une sulle altre, tra le quali si articola un dedalo di viuzze in pietra lavica e calcarea. Una struttura urbanistica di tipo medievale che ingloba fabbricati vecchi e nuovi, amalgamando armonicamente i colori del gesso con quello dei materiali da prospetto più recenti.
In questo paese ogni angolo è storia, cultura, arte … ogni pietra è leggenda. Questa, almeno, è l’impressione che riceve l’occasionale visitatore al primo acchito… …questa risulta essere la conferma, appena lo stesso incontra gli abitanti del paese: i suteresi. Gente mite, onesta, per bene incline al dialogo. Gente che racconta e si racconta… e ama i dettagli. A Sutera, infatti è la leggenda che ha dato identità al paese. E’ Il mito che ha profumato di mistero e suggestione ogni contrada. Persino i ragazzi, oggi, raccontano della fondazione della città ad opera di Dedalo, l’architetto ateniese fuggito dal labirinto di Creta ed ospitato dal sovrano, autoctono, Kocalo.
E nei racconti indugiano a rappresentare minuziosamente l’assassinio di Minosse, affogato dalle figlie di Kocalo dentro la vasca da bagno accennando anche alla mitica Camico, capitale della Sikania, inghiottita dalla voragine tellurica che aveva frantumato la rocca di San Marco e aveva spezzato in due parti il monte vicino (Rocca spaccata). Sulle mappe del luogo, per chi nutrisse qualche curiosità, si leggono toponimi suggestivi, che stimolano la fantasia (Aravia, Donnibesi, Arancisia, Donnaspusa). Nella realtà, si osservano ambienti incontaminati, selvaggi, fantasmagorici…(Scarcella, Santa Croce, Balate di Sciacca, Ganefo).
Sutera è stata la salvezza della Sicilia ripete la gente, all’unisono, traducendo dal greco e adattando ad ogni fenomeno storico o naturale, l’etimo della denominazione, Sòteira.
Sutera è stata la salvezza delle popolazioni che abitavano le sponde del fiume salato “Alikos”, quando nella località denominata Raffe, i pacifici coloni che coltivavano il lino, furono soggetti alle incursioni dei barbari (o barbaroi) che dal mare, con imbarcazioni leggere, dalla foce di Minoa, penetravano nell’interno del territorio, per razziare. Sutera è stata la salvezza dal cataclisma, ripetono ancora, da quell’implosione di fango, che ha sprofondato, come Atlantide, nelle viscere della terra, la mitica capitale della Sikania.
E nell’esplicazione dell’etimo la gente si gongola di orgoglio. Si pavoneggia. Perché i suteresi, nella loro tranquillità, sono orgogliosi, fieri, e, molto spesso, vanitosi.
Hanno anche uno spiccato senso della dignità.
Guai ad offenderli o ad oltraggiarli…
Come ai tempi dei greci, presentano immediatamente l’ostracismo. Neanche la Mafia, ubiquitaria mala pianta siciliana, è riuscita, caso più unico che raro, ad attecchire in questo comune. Mai i suteresi sono stati conniventi ed omertosi. Mai si sono lasciati abbindolare dal “fascino” del crimine.
“Ingens ac subtilissima civitas” era l’attributo identificativo dell’antica città regia. Città ingente e abbondante, pur essendo piccola. “Tempore famis subsidium Sotera” riportava una epigrafe marmorea che fino a metà dell’ottocento stette affissa alla parete della chiesa di Sant’Agata, proprio a ricordare il sostegno solidale che la città aveva dato all’isola nelle calamità e nelle carestie. Il geografo Arabo Al Idrisi nella descrizione dei percorsi della Sicilia, nel libro di Ruggero, attribuiva a Sutera, una enorme importanza, sia dal punto di vista economico che come referente di orientamento. “A tramontana di Gardutah giace Sutir, circondato da ogni banda dalle montagne, popoloso, industrie, frequentato, di passaggio da chi va e viene”.
Territorio strategico, dunque, per chiunque volesse controllare la via comiciana, quel percorso tortuoso che, costeggiando, a tratti le rocce di monte Conca e Cimò, a tratti il fiume Platani, da Girgenti portava alla capitale dell’isola. Sulla vetta della Rocca, di quell’amba africana come la definì nel 1910 il professore Giovanni Lorenzoni, sorse, allora, il castello: “i dammusi”, la neviera, le prigioni.
Da quella postazione infatti, si osservava ogni luogo, ogni movimento del vastissimo territorio circostante.
Il castello di Mussomeli, il torrione dei Gibellini, la Sera del Palco, il Passo “funnutu”, il mare di Agrigento, la rocca di Bastiglia, il monte Cammarata, si potevano raggiungere velocemente con uno sguardo, si potevano toccare, idealmente, con una mano.
Ad occidente si vedeva nitida e vicina Castrogiovanni.
Nelle giornate serene, più in là, sullo sfondo, il vulcano fumante l’Etna… il Mongibello.
Fu quello il motivo prioritario che ne determinò la demanialità, l’appartenenza alla Regia Corona. Fu quella la prerogativa che oppose, negli anni successivi, le nobili famiglie suteresi agli occasionali conti e baroni che per brevi periodi ne ebbero il possesso. Il 21 febbraio del 1397 dopo essere appartenuta a Guglielmo Raimondo di Montecateno, venne “ad demanium reducta”, per volontà del re Martino “perché un re deve, sempre, accondiscendere alle richieste dei suoi fedeli” punendo chi si macchia di fellonia e lesa maestà. Venduta e riscattata anche negli anni succesivi, la Vecchia Signora del Vallone, si vide attorniata, tra gli inizi del ‘500 e la fine del ‘600, da nuovi centri abitati che sorsero come funghi per incentivare l’agricoltura, unica fonte di reddito della nuova nobiltà contadina assenteista. Sutera, in quegli anni, divenne centro amministrativo e religioso della Val di Mazzara; fu sede di notai, di funzionari, militari, conventi e chiese.
All’inizio del settecento il suo declino divenne inarrestabile un po’ per la rissosità della sua nobiltà minore, un po’ per la progressione di Mussomeli con i fertili e ben amministrati feudi degli onnipotenti Lanza. La crisi dell’agricoltura tradizionale con la rivoluzione industriale, i nuovi assetti istituzionali scarsamente rispondenti alle necessità di territori difficili e diffidenti, l’emigrazione agli inizi del ‘900, nel primo e nel secondo dopoguerra, l’attuale invecchiamento della popolazione hanno decretato un progressivo calo demografico. Ma proprio in questo contesto che i suteresi hanno voluto ridare lustro al proprio paese scommettendo su una risorsa che non sembra più un utopia: il turismo.
Il percorso all’interno della realtà ambientale di Sutera prende le mosse da piazza
Sant’Agata, alla quale agevolmente si perviene da piazza della Rinascita; ed è in piazza Sant’Agata (Ex piazza Umberto I), che il visitatore consegue la prima accogliente immagine di uno scenario urbano dalle articolate prospettive: da un lato l’aereo belvedere apre la visuale sull’ampio panorama della Valle; impone sull’altro lato della piazza la propria solida volumetria la quattrocentesca chiesa di S. Agata in stridente contrasto con la geometrica razionalità del Municipio (rifacimento di un antico convento di Benedettine), con esso dominando l’ambiente urbano nel sito in cui la piccola quotidianità si celebra come su un palcoscenico negli incontri e nei fatti della vita di relazione.
All’interno della chiesa Sant’Agata, a triplice nave, l’impianto architettonico si esalta nei vibrati ritmi delle grandi arcate innalzate su eleganti colonne.
Nel coro si osservano pregevoli stalli lignei scolpiti appartenuti alle Benedettine, quivi insediatesi al tempo del loro trasferimento nel 1727 nel vicino convento; le grandi tele alle pareti raffiguranti S. Onofrio anacoreta e la Madonna degli Agonizzanti si attribuiscono a Pietro d’Asaro; conserva la cappella del Sacramento una insolita tela della Madonna degli Innocenti di un giovane Mariano Rossi (metà XVIII sec.); nell’aula si segnalano le seicentesche tele della Madonna degli Angeli e della Madonna della Catena e una aurata statua marmorea della Madonna delle Grazie, fascinoso prodotto di maestri lombardi operanti nel ‘400 in Sicilia.
Più avanti, da un recesso della piazza, sorgeva la chiesa di Maria SS. degli Agonizzanti, ricostruita verso il 1840 dall’omonima confraternita e da pochi anni ristrutturata è diventata sede di un centro polivalente e sede del Consiglio Comunale.
All’interno si possono ammirare, al piano inferiore, delle “cripte” della Chiesa preesistente. E suggestivi pure nella loro maestosa fragilità si offrono, a chi vi perviene percorrendo la via Roma, i ruderi del quattrocentesco palazzo della nobile famiglia Salomone, grandioso edificio in pietrame informe nel quale ebbe i natali Francesco Salomone (1478-1569) uomo d’arme, eroe della Disfida di Barletta. Una lapide sul lato est del castello datata febbraio 1903, ricorda i festeggiamenti del quattrocentenario della disfida di Barletta, festeggiamenti che ebbero la presenza di più di 5.000 persone.
Percorsa la breve via F. Salamone e la via Carmine si giunge sulla destra ad un piazzale belvedere “cuzzu San Roccu”, diventato ora Piazzetta “Dillingen”, dove all’estremità di essa vi è la statua di San Pio.
Più avanti, la piazza Carmine, conclusa in funzione di quinta prospettica dalla lineare compostezza della chiesa di Maria SS. del Carmelo, ricostruita quasi interamente negli anni 1934/36 su un organismo del 1185 derivato a sua volta dall’ampliamento di una più remota chiesetta dell’Annunziata esistente nel sito. Affiancato da una rubescente torre campanaria con cupolino a bulbo, il glabro prospetto incorpora un esiguo porticato a triplice fornice, all’interno del quale il portalino d’accesso si orna di piedritti provenienti dalla moschea del Ràbato; alla destra dell’edificio, la facciata del conventino edificato nel 1664 dai PP. Gerosolimitani Carmelitani in ristrutturazione e sede futura di un museo. Nel candido interno a tre navate si apprezzano: un’acquasantiera marmorea del 1562, una tela del 1514 raffigurante la Madonna del Carmine con S. Angelo e Sant’ Alberto, nella cappella a sinistra del presbiterio un antichissimo gruppo statuario in legno policromo dell’Annunciazione, animato e ingenuo prodotto della cultura popolare.
Capolavoro assoluto è la Madonna del Soccorso, marmoreo simulacro collocato nella cappelletta a destra del coro, ornata dei sarcofagi della famiglia Salomone: vigilata testimonianza dell’arte del carrarese Bartolomeo Berrettaro, la statua fu scolpita nel 1503 per committenza dei Salomone, di cui nella predella risalta a rilievo fra due angeli l’araldica insegna.
Proseguendo per via Carmine si giunge al Ràbato, irrequieto assembramento di casette affastellate su tortuose e anguste viuzze segnate dalle orme dei secoli.
Qui è la sede naturale del presepe vivente che ogni anno fa rivivere il mistero della natività con gli antichi mestieri degli inizi del novecento.
Nella parte più elevata, la compatta massa della matrice di Maria SS. Assunta, edificata nel 1370 da Giovanni Chiaramonte sui resti della moschea del IX secolo ma soggetta a sostanziali interventi ricostruttivi nel 1585, ha squisite reminiscenze rinascimentali nel portale trabeato sul vano arcuato affiancato da piatte lesene, mentre il mistilineo portalino laterale innesta elementi architettonici della moschea.
Nella Chiesa Maria SS. Assunta (Chiesa Madre) l’interno a tre navate si illegiadrisce di geometrici ornati in stucco e sobrie indorature, culminando nella raffinatissima cappella del SS. Sacramento, doviziosa di delicati decori; all’ingresso è un marmoreo fonte battesimale del 1495; alle pareti, animata tela dell’Assunta di Pietro D’Asaro (circa 1640) e una devozionale Madonna della Cintura (1756) di artista locale; in sacrestia, un teso S. Francesco in estasi è ispirata tela forse dello stesso Pietro d’Asaro.
Si ritorni verso piazza Carmine per salire (per un’ampia strada a scalini che fende le lussureggianti balze del monte S. Paolino, assestato a parco urbano) all’ampio terrazzo sulla cima, su cui posa l’oblunga massa del Santuario Diocesano di San Paolino, eretto nel 1374 da Giovanni III Chiaramonte sulle strutture dell’antico castello. Più volte oggetto d’interventi nell’ultimo secolo, la
chiesa è affiancata da un ex conventino del primo ‘700 dei PP. Filippini, adesso ristrutturato; nella disadorna aula a tre navate è una notevole tela della Madonna in trono fra i SS. Cosma e Damiano di Filippo Tancredi (1700). Il ricco tesoro del santuario si custodisce all’interno di un protetto stipo ligneo del 1903, scolpita opera di ebanisteria a decori simbolici rinserrata alla destra del presbiterio: sono due urne-reliquiario, opere d’arte mirabili, espressioni fra le più cospicue dell’antica oreficeria siciliana; raffinato prodotto del 1498 a forma di grande cofano con coperchio a schiena d’asino, la prima, sbalzata in una ricamata lamina d’argento con delicate figure a rilievo e fiffi decori a racemi e palmette, contiene le ossa di San Paolino, Sant’Archileone, San Damiano e San Pietro Martire; l’altra, eseguita nel 1649 dal palermitano Francesco Rivelo, è sfarzoso documento plasticamente scultoreo dell’arte barocca, nel quale si alloggiano le ossa di Sant’Onofrio, re di Persia.
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