In queste settimane di preparazione alla “giornata della donna” qualcuno ha pensato bene di ammazzarne altre due, giusto così per tenere il passo. I media ne hanno dato notizia al solito modo: la vittima è stata dipinta come carnefice e l’assassino come un poveretto da commiserare. In un caso infatti la megera aveva lasciato il fidanzato e si era messa con un altro, più giovane di lei e nell’altro, la maliarda, si era sottratta alle insistenze dell’uomo, focoso e, poverino, incapace di autocontrollo. L’ennesimo caso di “femminicidio” titola l’informazione e la parola diventa ancora una volta pretesto per dotte discussioni sulla forma e l’eleganza del linguaggio o racconto, morbosamente dettagliato e oscenamente truculento. La violenza sulle donne va in scena così. Violenza, giustamente, consumata in nome del “sacro dramma della gelosia” e dunque “strangola la moglie e si uccide forse un raptus di gelosia” “innamoratissimo, tranquillo, riservato, con un unico difetto il tarlo della gelosia” e poi a seguire i commenti dei parenti addolorati e masticati e rimasticati dalla ingordigia dell’insaziabile telecamera. “Tragico destino di una storia di amore e gelosia”, “ lui l’amava ancora nonostante i rifiuti di lei” basta poco e il noir è servito; un po’ di voyeurismo del dolore, una spruzzatina di illazioni e tanta, tanta immoralità. I parlanti dopo essersi saziati si compiacciono di accompagnare la digestione con la scientifica dimostrare che le “femmine si sono sempre ammazzate” e non basta certo una neoformazione linguistica per sollevare la questione. La cosa retrostante, il significato cogente dietro al segno semantico, diventa una semplice vox media e a chi importa se una donna ogni due giorni viene uccisa, in nome di un amore malato. Il fatto è solo questo: in Italia, il “femminicidio” è sempre esistito perché il maltrattamento della femmina è profondamente radicato nella nostra cultura, patriarcale e maschilista solo che prima non c’era a disposizione una parola univoca per identificarlo. Prima la violenza sulle donne si chiamava semplicemente “violenza sulle donne”, espressione lunga, più contorta se vogliamo, più dispendiosa in base al principio dell’economia linguistica di Martinet. Femminicidio invece sfrutta l’ondata emozionale collettiva in maniera egregia. “Femminicidio” è parola d’origine antica: “in lingua inglese il termine femicide veniva usato già nel 1801 in Inghilterra per indicare “l’uccisione di una donna”. Il termine è stato utilizzato poi dalla criminologa Diana Russell nel 1992, nel libro scritto insieme a Jill Radford: Femicide, the Politics of woman killing. La Russell identificò nel femmicidio una categoria criminologica vera e propria: una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna. In buona sostanza, a me sembra che le parole siano impotenti proprio in quanto attuanti e le parole abusate sono paroleviolente al di là del proprio contenuto concettuale perché violentano i parlanti che ne vengono usati ed abusati inconsapevolmente.
Check Also
All’Oasi di Troina il progetto sperimentale di “Tele-visita Filtro” per la gestione e la riduzione delle liste d’attesa
L’IRCCS Oasi di Troina, avvierà dal prossimo mese di febbraio il progetto sperimentale “Tele-visita Filtro” …