Tradire il partner, in Cina, costerà la carriera. L’ultima campagna moralizzatrice, lanciata dal presidente Xi Jinping, semina il panico tra i funzionari del partito comunista e minaccia di rivelarsi il più seguito show della tivù di Stato. Intrattenere relazioni extra-coniugali, secondo la Commissione centrale per l’ispezione disciplinare, rivela l’attitudine alla corruzione: si comincia con l’adulterio e si finisce con la mazzetta.
Peccare, oltre alla scrivania, varrà anche un ruolo da protagonista nella diretta nazionale delle «sessioni di critica e autocritica », record d’ascolti dell’estate. È la nuova «linea di massa» di Pechino, tesa a «sradicare edonismo e stravaganza» attraverso l’auto- gogna rossa. «Ho ceduto al piacere — è stato costretto a confessare alla Cctv il vicegovernatore dell’Anhui — corrompendo una ragazza e mentendo a mia moglie». La condanna per «degenerazione morale», che i cinesi traducono in «abuso di concubine», varrà cinque anni di «rieducazione politica ».
Non che in Cina l’adulterio sia, ufficialmente, reato. Diventa però ora una violazione al codice di disciplina del partito-Stato, sanzionabile con il licenziamento. Sei alti dirigenti, secondo il Beijing Youth Daily sono stati rimossi per aver pagato delle prostitute. Sospesi altri dieci, pescati non soli a sudare in una sauna.
Già Mao Zedong considerava il tradimento altrui «uno stile di vita degenerato che rivela la corruzione morale dell’individuo ». Sentenza applicata dai successori senza troppa convinzione: nel Paese operano 6 milioni di prostitute e il sesso a pagamento vale il bilancio di una multinazionale. A costringere il partito a dichiarare guerra alla scappatella, eccessi e scandali degli ultimi mesi, tali da comportare il rischio di una rivolta popolare.
L’ascesa dei funzionari pubblici, si indigna il web cinese, sfocia in due infallibili segnali: spese pazze e stormi di modelle. Muta così all’improvviso, scossa dalla rabbia per la disuguaglianza di massa, la retorica del potere: tradire, come rubare, non può più essere una licenza concessa ai titolari dell’autoritarismo post-rivoluzionario.
L’ex leader neomaoista Bo Xilai, sacrificato due anni fa nella corsa al potere contro Xi Jinping, fu accusato di «aver avuto relazioni sessuali improprie con più donne». In febbraio oltre seimila soldati inviati da Pechino hanno chiuso 25 mila locali a luci rosse a Dongguan, capitale mondiale delle prostitute in offerta per gli operai-migranti del Guangdong. Imbarazzo anche tra i dirigenti della metropoli di Shenyang: una direttiva vieta di guardare siti porno in ufficio perché «gli impiegati sono sempre stanchi e le perdite di tempo sono un costo ormai inaffrontabile».
A sorprendere, l’appoggio spontaneo al divieto di adulterio per i colletti bianchi di Stato anche da parte dei giovani cinesi, noti campioni di privata infedeltà. A prevalere non sono le regole di una religione, ma le norme di un partito che si ripropone baluardo sia degli interessi della società che della coscienza degli individui, unico organismo autorizzato ad emendare anche se stesso.
Ipocrisia di regime e giustizialismo di popolo, con il diritto alla riservatezza travolto da milioni di denunce anonime in pochi giorni, contro gli odiati funzionari che «pretendono lealtà collettiva e mentono anche all’amore della vita».
Intellettuali e dissidenti temono così che «la pulizia morale serva a nascondere l’epurazione politica», confondendo corruzione e adulterio «con una resa dei conti tutta interna ai prìncipi rossi». La risposta del governo è che «i dirigenti pubblici devono seguire un codice etico superiore alle persone normali». Come se Pechino dicesse che d’ora in poi i «compagni», se indifferenti al successo, sono assolti dall’obbligo di coniugale fedeltà.
Giampaolo Visetti per “la Repubblica”