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Enna, VI Dicembre, “sulu a chiazza nni ristò”

6_dicembre ennaIl sei Dicembre, anniversario della elevazione a capoluogo di provincia della vestusta Castrogiovanni, non si festeggia più, lo scrive con maestria il Prof. Pino Grimaldi, acuto osservatore delle nostre cose, molti, invece, lo dimenticano, come se non fosse con noi che questo “non anniversario” in fondo l’abbia.
Castrogiovanni, Castrjanni forse sarebbe meglio dire, sta avendo la sua vendetta su Enna, sulle gloriose gesta del passato classico, sulle sacre aure delle ktonie divinità, su chiunque poteva aver immaginato che queste quattro case tirate lassù dalla voglia di difendersi, sferzate dal vento e dalle nubi, capaci di far star male persino i grandi animi come il Goethe che giurò di non tornar mai più, potessero assurgere ad un futuro altro, di rilievo, di centralità non solo geografica ma anche politica e culturale.
In pochi giorni vanno via la direzione del Tesoro, la Camera di Commercio, la Prefettura.
Persino le federazioni sportive si allontanano da Enna. Tra qualche giorno ci chiuderanno pure la rivendita di bruscoli.
Quel che colpisce, però, è che mentre in altri momenti di crisi Enna abbia saputo alzare la testa e guardare avanti, questa volta non sia così. Tutte le chiusure vengono accettate con acquiescenza, ogni notizia relativa a nuove “centralizzazioni” viene vista come una quasi accettabile seppur dolorosa misura senza comprendere che ognuna di queste privazioni è uno sfregio all’esser città, alle possibilità che si devono ad un territorio, ai diritti di gente che ha dato sudore e sangue per uno Stato sempre e comunque patrigno.
Si, patrigno come è lo Stato italiano, capace di fagocitare schiere di giovani siciliani per secoli, gente da trasformare nella forza lavoro di un’Italia a due velocità, capace di drenare sino al più piccolo soldino messo di lato da generazioni di previdenti siciliani, capace di dimenticare le tante, troppe infrastrutture da finire, capace di trasformare l’anelito dalla industrializzazione nella rovina assoluta delle coste siciliane e nell’abbandono di magnifiche opportunità come erano le miniere di sali.
Questo Stato se ne va, lo fa con i proclami di nuovi corsi, di new deals che dovrebbero, dicon loro, portare l’Italia nuovamente tra le grandi, lo fa lasciandoci si e no la possibilità di azzuffarci negli unici consessi democratici che ci lascia, i consigli comunali, su come tassarci per avere disponibilità per i tanti bisogni della vita quotidiana.
Si allontana Roma, e si allontana anche Palermo, a Roma oggi strettamente collegata, e qui, tra le colline a grano, rimane la polvere di quel che fu, rimane quella lapide, unica al mondo, con la oramai incomprensibile dedica “Piazza VI Dicembre”.
Che fare? Ben poco, magari mangiare un buon panettone, magari passare le feste in famiglia, con gli affetti e gli amici, magari riflettere e poi, per chi ancora crede nel grasso e sorridente signore in rosso, scrivere una bella letterina a Babbo Natale dove, piuttosto che il trenino, chiedere l’annessione di Enna ad una nazione emergente, magari l’Uzbekistan o il Cile…


Giuseppe Maria Amato

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