Era il 25 dicembre del 1914 e le truppe tedesche e inglesi che si combattevano aspramente sul fronte occidentale fin dal primo di agosto, uscirono dalle trincee e si concessero la pace. Fu una tregua momentanea all’insaputa dei capi e dai capi lontani dalle trincee punita, ma bastò ai soldati per guardarsi negli occhi e capire che il nemico aveva faccia e occhi e negli occhi la stessa paura di morire. La letteratura di guerra ne racconta tanti di questi episodi e pur non trovando riferimenti storici sufficienti, ne alimenta ugualmente la leggenda, forse per smussare le spigolature altrimenti incomprensibili per tanto orrore. Si contavano a distanza di cinque mesi dall’inizio del conflitto già un milione di vittime, massacri e devastazioni si erano consumati e la fine appariva lontana. Frederic Villiers in una nota illustrazione disegna uomini con uniformi diverse in piedi, a farsi gli auguri nella terra di nessuno e Paul Mc Cartney la stessa cosa canta in Pipes of Peace nel 1983. Perché? La guerra avrebbe proseguito il suo cammino per anni e il 26 di dicembre quegli stessi soldati si sarebbero sparati come era accaduto il 24 di dicembre e come sarebbe accaduto dopo, ancora e ancora e allora perché? Perché si aveva allora come ora bisogno di credere che la pace dal basso sia possibile? Perché si aveva e si ha bisogno di pensare che vigliacco è chi comanda dalle stanze lontane dal sangue. “Schernitori di carne umana, vigliacchi che voi ve ne state con le mogli nei letti di lana, voi che chiamate il campo d’onore, voi assassini” cantava Giovanna Marini. Si ha il bisogno di credere al bene anche in mezzo alle granate, alle bombe e alla negazione della pietà, perché? Ungaretti poetava in mezzo al nulla, perché? Perché l’uomo che augura buon Natale è lo stesso uomo che arma la mano e giustifica l’assurdo in nome di un arbitrio! Ci si ammazzava a baionettate allora e ci si ammazza coi droni oggi eppure a Natale c’è quel perché che non si sa mai come dire, ma che tutti sanno e che inspiegabilmente fa tutto più bello… pure la morte.
Grabriella Grasso
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