Due donne, due personalità, due linguaggi. Dall’incontro fra Marisa Sapienza, pittrice, e Marilina Giaquinta, poetessa, nasce “InsulAmata. La pittura poetata”, un percorso multisensoriale e intermediale a cura di Daniela Vasta, che i suggestivi spazi della Cappella Bonajuto (Via Bonajuto 9/13 – Catania) ospiteranno dal 31 gennaio 2015 al 15 febbraio 2015.
Le opere in mostra sono il frutto dell’ultima ricerca di Marisa Sapienza che in consonanza con le idee del filosofo Alain de Botton, lavora da qualche anno su temi legati al paesaggio trasformato dal lavoro dell’uomo, sulla fascinazione delle aree industriali dei porti e degli stabilimenti in costruzione, convinta che occorra ampliare in tal senso un concetto di bellezza ormai stereotipato e bucolico in favore di uno sguardo più ampio
e inclusivo. Nascono così i “tralicci” e i “cantieri”, i “cargo” e le “petroliere”, i “porti” e le “centrali elettriche” e “nucleari”, le “entropie” in cui tutto si assume entro al grande tema dell’energia creatrice e dell’eterna trasformazione e, da ultimo, le “Etna” celebranti la forza primigenia ed eterna del tutto.
L’installazione sonora che accompagna l’esposizione insiste volutamente sull’effetto litanico, sull’accumulo ecolalico: i versi di Marilina Giaquinta non sono un semplice commento ai dipinti esposti, ostacolano piuttosto la tentazione del visitatore di arrestarsi alla superficie. «Nelle poesie il paesaggio – scrive Daniela Vasta nel testo di presentazione – non è che il punto di partenza verso esplorazioni interiori veritiere, anche spietate, in fondo alle quali si dichiarano l’amore e il dolore, la forza dei ricordi, la dolcezza della nostalgia o il tarlo del rimpianto. Quello che il verso riesce a stimolare – senza automatismi però o facili similitudini – è il continuo movimento di andata e ritorno dal paesaggio dipinto alla storia personale, dalla storia personale al paesaggio dipinto… […] Non dichiarato, eppure emergente da ogni brano paesaggistico, da ogni descrizione, è il canto d’amore per la Sicilia, insula amata dalla struggente bellezza. Come accade in ogni riuscita alchimia, quello che qui si propone non è una semplice addizione fra due personalità artistiche, giacché a ben vedere le due artiste interferiscono ciascuna sull’opera dell’altra, modificandola e rendendone assai più sfaccettata e polifonica la fruizione».
LAVA
Erompe
il fragore del boato,
fiammeggia,
rovente,
s’incendia
divampa
s’addensa
pietra si muta
scabra
puntuta
nera.
Siede e voragina.
E non conosce pietà.
Divora la terra
che
trema
e cede
e si spegne.
Senza case senza niente.
Io sono quella pietra
cupa
inanime
aguzza
silicia
fossile
dura
immota.
Pietra.
Che il mare non leva
che il tempo non rode.
Pietra.
Che taglia la mano
che scaglia,
lontana.
E non si frange.
GRU
Malora
di livido cielo,
di disperato
invoco,
graticola
trina
cannizzo
d’accaio,
e gru
che cigolano
come un addio.
Braccia sloganti
tagliano
l’ascissa muta
dell’orizzonte,
graffiano
il tramonto,
a raggiungere
l’arancia luce
dell’attesa.
Ritte contro
la pietà
e il suo bisogno,
solcano,
vele
di sfilacciato spettro,
il silenzio ruvido di tempo.
Sotto,
il sonno nero
delle case
senza vita.