Ve lo ricordate Carlo Cottone Marchese di Villahermosa e principe di Castelnuovo? Quello la cui solenne statua guarda il traffico della cosiddetta piazza Politeama di Palermo che, in realtà sarebbe a lui dedicata?
Forse no, o, magari, per chi si appassiona alla Storia di Sicilia, ne ricorderete le gesta politiche, quelle che portarono infine alla sua fama ed alla borbonica accusa di “giacobinismo”.
Il giovane Carlo Cottone visse in un momento nel quale il governo napoletano, pressato dalle convulse vicende belliche delle gesta napoleoniche si trovò costretto per ben due volte a riparare sull’isola che fino ad allora era rimasta nominalmente un Regno a se stante, con un suo Re, magari lo stesso di Napoli ma Re di Sicilia e, soprattutto, con un Parlamento, il più antico d’Europa insieme a quello islandese.
Il Cottone fu allora criticissimo sino al limite del rischio per la sua personale incolumità verso le pretese economiche dei sovrani napoletani e della loro corte. Si mise a capo di una vibratissima protesta ed infine venne arrestato nel 1811 e rinchiuso insieme ad altri nobili siciliani nel durissimo carcere di Favignana. Fu solamente l’intervento del plenipotenziario inglese presso la corte borbonica, Lord Bentick che lo salvò dalle patrie galere.
Vi chiederete adesso e quindi? Che ce ne viene da questa disquisizione sul tipo che oggi marmoreo sta lì a Piazza Politeama?
Ce ne viene un esempio, una lezione, una lezione che dice semplicemente una cosa: La Sicilia, miei cari, non è Italia, è Europa, come dice il Principe Fabrizio Salina, è un’Europa popolata da europei come la Regina Vittoria, ma è Sicilia, non Italia. Essa deve essere non solo autonoma ma “altra” dal resto dell’appiccicaticcio mosaico di genti che oggi risulta essere l’Italia. Oggi di questa sudditanza paga il duro scotto. Così per dare peso e senso alle giuste aspettative di cittadinanze che ad esempio nelle province (le vecchie intendenze dei tempi del Cottone), una delegazione in complicatissima visita al viceré che il Governo centrale ha posto a Palermo, si sente rispondere che senza la giusta riforma nulla è dovuto e nulla sarà dato.
Giusta riforma? E di cosa? E perché? E poi gettiamo sul piatto della bilancia le disuguaglianze oramai secolari tra noi bistrattati nipotini di Carlo Cottone e gli altri, quelli che stanno al di là del Garigliano?
Quelle risorse, caro Baccei (e perché no, caro Crocetta, che così come altri regnanti sei prono a poteri non siciliani), sono nostre, sono sudate somme di ogni cittadino costretto a rischiare la vita per andare al lavoro su strade oramai non più esistenti, di ogni studente costretto a andare in scuole pronte al crollo, con riscaldamenti tagliati, con erogazione elettrica al minimo, con dotazioni di sicurezza oramai “africane”, di ogni agricoltore beffato da scelte piratesche e strafottenti in una girandola di fondi UE che vanno e vengono da Bruxelles per la gioia della corte dei miracoli che bagordeggia a Palermo.
Quelle risorse, siciliani tutti, le paghiamo con lo scotto della distruzione della salubrità della nostra Natura si con la N grande, con il MUOS con le concessioni petrolifere ai cowboys, con le ignominiose scelte sulle grandi opere, con le dichiarazioni da fantascienza su aeroporti e ferrovie supersoniche.
Noi non vogliamo molto, ma certo ci meritiamo la dignità. Riforme di cosa? Di una forma stato che si sta smaterializzando e che invece di difenderci dalla mafia e dal malaffare si squaglia chiudendo Tribunali, Caserme e presidi, trasformando la burocrazia in un cannibalico sistema, consentendo alle banche di giungere infine ad una seconda schiera di cravattai ed usurai?
So che è un sogno, ma mi piace sognare, mi piace pensare che nuovi Carlo Cottone, domani, scrivano una nuova Costituzione Siciliana, un nuovo corso trinacrino e finalmente giungano all’unica conclusione possibile, divorziare da Roma, divorziare civilmente, con buon senso, senza scossoni e senza strascichi. Noi, sei milioni di siciliani, di Turiddi e di Principi Carlo e Fabrizio, di Lole, e di Regine Costanze, finalmente europei ma da soli, come i nostri fratelli Maltesi, i Greci, i Ciprioti. Poveri ma belli, capaci di darsi un futuro con le proprie riforme e senza giudici e maestri.
Giuseppe Maria Amato
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