Morire mentre ci si appresta a mettere al mondo un bimbo; morire portando con sé anche la creatura che si ha in grembo. Sembravano eventi da consegnare al passato e invece per cinque volte in pochi giorni la tragedia si è ripetuta nelle cattedrali della sanità nordica. Gli ispettori evocati dalla Lorenzin dichiareranno la casualità, casualmente avvenuta sotto le feste, certo non da addebitarsi ai tagli strutturali e alla riduzione del personale, improvvidamente impreparato agli imprevisti. La colpa è dell’avverso destino, che rema contro le riforme necessarie all’ammodernamento del paese Italia. Cinque morti di parto in sette giorni è solo un caso statistico. Le stime dell’Istituto superiore di sanità parlano di 50 decessi per parto l’anno, dati in linea con gli altri paesi europei. La colpa è della malasorte se da Natale ai primi giorni del nuovo anno negli ospedali italiani del nord si sono registrate cinque morti per parto, in quattro casi dei quali a morire è stato anche il feto. E’ colpa del caso se il test di trombofilia ereditaria, definito salvavita in gravidanza, non è obbligatorio nei casi sospetti. In Italia i decessi materni sono 50 l’anno per emorragie post partum, disordini ipertensivi e tromboembolie, circa 10 casi ogni 100mila nascite. Il Codacons però sostiene che cinque morti in sette giorni non siano affatto un caso e che l’unica misura utile per evitare simili tragedie è prevenire, migliorando il servizio offerto dai nosocomi italiani. In Italia dunque il tasso di natalità è fra i più bassi, ma persiste inalterato il rischio di morte “di parto”. Prevenire sarebbe necessario, ma non si previene. Si fanno controlli mensili negli studi privati di rinomati ginecologi. Tanto rinomati quanto costosi, e si spera che il loro nome serva a serbarci almeno un letto in reparto. Sarà il caso a fare tutto il resto.
Gabriella Grasso
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