Domenica 17 aprile si svolgerà il referendum impropriamente definito “sulle trivelle”. Se avessi potuto sarei andato a votare e avrei votato SI, ma più per dare una mano alla “causa” generale che non per entusiastica convinzione. Diversi, infatti, sono gli aspetti del quesito proposto che sollevano dubbi, mentre ritengo esagerazioni infruttifere le implicazioni sulla politica energetica del Paese di cui i sostenitori del SI caricano, sulla stampa e sui social, la loro eventuale vittoria.
Siamo franchi: l’opzione referendaria ha perso da decenni la funzione di cui l’avevano dotata i Padri costituenti quando decisero di inserirla all’interno della architettura costituzionale della nascente Repubblica parlamentare. A ciò hanno contribuito diversi fattori, potremmo dire “endogeni” ed “esogeni”; certamente, il colpo di grazia ad uno strumento che sarebbe dovuto servire a supportare ed a pungolare l’attività dei partiti – perno della democrazia e, per questo, oggetto di uno specifico articolo della Carta (il 49) – è stato dato dal “pannello-segnismo”, ovvero da una vera e propria tendenza impostasi in Italia tra l’inizio degli anni Settanta e la seconda metà degli anni Novanta, che ha abusato dell’istituto di c.d. “democrazia diretta” per cercare, da un lato, di scardinare gli assi portanti del sistema politico-istituzionale, e, dall’altro, di dare un ruolo ed una collocazione ai suoi iniziatori.
Porre rimedio ad una stato di vero e proprio snaturamento del referendum è un obiettivo che le forze progressiste dovrebbero darsi, dunque, adottando però auspicabilmente una pratica “rivoluzionaria” incardinata su due elementi: verità nei ragionamenti e coerenza fra quello che si dice e quello che si fa.
Mi riferisco nello specifico allo “scandalo” suscitato dall’intervista all’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, uscita ieri (14 aprile, ndr.) sul quotidiano «la Repubblica». Intendiamoci: è evidente che si tratta di un intervento a gamba tesa e “a orologeria” finalizzato a orientare quella parte dell’elettorato – forse determinante – che nella sua leadership prima, e, poi, nella sua presidenza, si è sempre riconosciuta. E’ stata una presa di posizione politica, quindi, legittima forse ma vistosamente inopportuna, che getta nuove ombre sul novennio in cui è stato al Quirinale, e rafforza il convincimento di chi, come me, lo colloca sul podio più alto della classifica dei peggiori capi di Stato del Paese.
Ciò precisato, tuttavia, pur non condividendo pressoché nulla di quanto affermato dall’ex inquilino del Colle, non si può non convenire con Napolitano che «Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria».
Sul referendum i Costituenti ragionarono, e ragionarono a fondo, interpretandolo, come accennato prima, quale strumento di “aiuto” al Parlamento e non di delegittimazione dello stesso e della sua funzione. In quest’ottica, non solo riservarono ai soli rappresentanti la possibilità di “decidere” su alcuni temi (si badi, “decidere”, non discutere ed elaborare una posizione politica da sostenere in aula, che – si dava per scontato – si sarebbe fatto all’interno dei partiti), ma distinsero altresì tra un tipo di consultazione, quella “abrogativa”, valida se “sentita” dalla maggioranza della popolazione (50% + 1), ed un’altra, quella “costituzionale”, dall’esito comunque regolare, a prescindere dal grado di interesse dei cittadini, in virtù del quadruplo vaglio parlamentare (due letture alla Camera e altrettante al Senato), cioè dell’esame del testo da parte dei seicentotrenta rappresentanti del popolo.
Alla luce di questa disposizione (contemplata nell’articolo 75), e della ratio che la sottende, l’astensione può essere certamente espressione di disinteresse, ma può anche divenire strumento di lotta a cui deve essere riconosciuta dignità politica. La Sinistra questo lo sa bene, anche perché l’ha – l’abbiamo – giustamente praticata e predicata in anni recenti ben due volte: per il referendum del 18 aprile del 1999, quando, non riuscendo in altri modi, si tentò di omologare il quadro politico ai dettami del neoliberismo attraverso la cancellazione della piccola residua quota proporzionale del “Mattarellum”, così da estromettere dallo scenario politico Rifondazione comunista, l’unico partito che si opponeva ad uniformare la politica economica nazionale ai vincoli imposti dal Trattato di Maastricht, alle controriforme della scuola e delle pensioni e, soprattutto, alla guerra che in quei mesi deflagrava nel cuore dell’Europa e che vedeva il governo guidato da Massimo D’Alema tra i principali protagonisti; l’anno successivo, il 21 maggio 2000, allorché vennero proposti ben sette quesiti sui temi più disparati, dalla legge elettorale – di nuovo – all’abrogazione dell’articolo 18.
In quelle occasioni – nel secondo caso ottenendo addirittura un pronunciamento da parte dell’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, non diverso da quello espresso ieri da Napolitano – la Sinistra promosse una giusta campagna di boicottaggio attivo di autotutela, che contribuì a vanificare le infami manovre che miravano a fare piazza pulita delle voci dissonanti ed a ridurre i diritti dei lavoratori. Era giusto assumere allora quella posizione, netta e coraggiosa, ed è dunque altrettanto legittimo che oggi altre forze politiche scelgano di dare indicazione di astensione. Perché l’egemonia sulle grandi questioni è cosa difficile e complessa da conquistare, ma per iniziare col piede giusto sarebbe meglio, credo, lasciare ad altri polemiche pretestuose e mistificazioni della realtà, pur comprendendo l’irritazione che sollecitano le parole di un “grande vecchio”, contraddistintosi per l’avversione alla – e non per la garanzia della – Costituzione.
Carmelo Albanese