La società in house per la gestione dei servizi pubblici locali
è uno strumento demodè
di Massimo Greco
Che un Comune possa adempiere ai compiti d’interesse pubblico ad esso incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligato a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi è cosa buona, giusta e condivisa anche dall’ordinamento comunitario. In tale contesto, l’ordinamento (sia comunitario che interno) non predilige né l’in house, né la piena espansione della concorrenza nel mercato e per il mercato e neppure il partenariato pubblico-privato, ma rimette la scelta concreta al singolo Comune affidante. In definitiva, i servizi pubblici locali a rilevanza economica possono essere gestiti indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando, all’esito di una gara ad evidenza pubblica, il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per mezzo di una società mista e quindi con una “gara a doppio oggetto” per la scelta del socio e per la gestione del servizio), ovvero attraverso l’affidamento diretto, in house.
In tale contesto, se è vero che la scelta del Comune in ordine alle modalità di affidamento del servizio risponde ad un indiscutibile potere discrezionale, è altrettanto vero che tale scelta deve essere congruamente motivata e non solo in forza del più generale principio di motivazione degli atti amministrativi. Infatti, il recente d.l.gs. n. 50/2016 statuisce all’art. 192 c. 2 che “Ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche“. Ciò significa che l’ipotesi dell’in housing, mentre non è in discussione, deve però essere debitamente motivata. Tale motivazione, in presenza di gestioni integrate dei servizi pubblici a rilevanza economica (come avviene in Sicilia per acqua e rifiuti) deve altresì contemplare una valutazione in ordine all’eventuale esigenza di assicurare il mantenimento dei livelli occupazionali. Quest’ultimo aspetto diventa un vero ostacolo per l’ipotesi dell’affidamento in house, atteso l’insuperabile vincolo del reclutamento delle risorse umane con procedura ad evidenza pubblica oggi esteso dalla normativa vigente statale e regionale alle società pubbliche.
Anche per questo motivo, non affatto secondario, riteniamo superato (rectius, demodè) lo strumento dell’in housing, a vantaggio della società mista pubblico-privato che, oltre ad assicurare un controllo pubblicistico (anche maggioritario) sulla gestione del servizio curato dal socio operativo privato reclutato dal mercato concorrenziale, consente facilmente il passaggio delle risorse umane esistenti nella precedente gestioni.