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Elezioni amministrative 2016: se il reale non è razionale

fenomeno grillismoLe elezioni amministrative del 5 e 19 giugno 2016 ci consegnano la fotografia nitida di una vittoria, senza se e senza ma, del Movimento cinque stelle. A molti commentatori, così come a quasi tutti i politici “dell’eterno presente”, è bastato questo dato per derubricare dall’agenda il punto e passare a quello successivo. Personalmente, ritengo opportuno svolgere alcune considerazioni che provino a gettare lo sguardo al di là di questo risultato, precisamente dietro, e cecherò di farlo in quattro punti.

  1. Come conferma anche questa tornata, l’esercizio del voto si svolge ormai all’interno di un sistema di suffragio “quasi universale” de facto, dove a tenere distante metà dell’elettorato dalle urne non è una legge, come era accaduto nel 1912 con la riforma di Giolitti che pure aveva ampliato notevolmente la platea dei votanti, quanto la libera scelta della maggioranza dei cittadini, diversamente motivata. Tale aspetto ha certamente delle ricadute devastanti sull’assetto complessivo del Paese – perché scava sempre più in profondità, elezione dopo elezione, il solco che separa i rappresentanti/governanti dai non-rappresentati ma governati – , ma dice soprattutto della incapacità di stimolare quella vasta area da parte di tutte le forze politiche, M5S in primis.
  1. Che il movimento fondato da Grillo abbia vinto, mi pare, come detto, un fatto di difficile smentita. Basterà ricordare, al netto dei casi più noti di Torino e Roma, che dei 20 ballottaggi in cui era presente ha eletto propri candidati sindaco in 19 città. Ciò detto, se il dato strutturale della partecipazione al voto, confermato anche in questa occasione, è quello prima menzionato, si dovrebbe essere indotti a utilizzare con maggiore cautela termini quali “rivoluzione” o “miracolo”.

Per la verità fenomeni come quello grillino non sono nuovi in Italia, e non parlo della cosiddetta “Prima repubblica”. Volendo mettere da parte per un attimo i volti “nuovi”, “belli” e “puliti” che hanno rappresentato lo stilema del Movimento cinque stelle in queste elezioni, i moduli linguistici, la proposta politica e le soluzioni individuate per risolvere gli “atavici” mali italiani di Di Battista & co non si discostano poi tanto da quelli utilizzati all’inizio degli anni Novanta da movimenti quali la Lega di Bossi o l’Italia dei valori dell’ex pm Di Pietro. Anche quelle forze furono dirompenti e godettero di una certa fortuna, non a caso, durante la fase non breve in cui mostravano reticenze a definire la propria identità e a collocarsi in modo organico all’interno delle coalizioni; poi finirono per inabissarsi – anche qui, non a caso – poco dopo essere state costrette a scegliere uno schieramento. In realtà, come tutti i soggetti politici che rifiutano di nominarsi, di dire chiaramente chi sono e da che parte stanno, si trattava in entrambi i casi di fenomeni di destra, costituzionalmente di destra. Era – e continua ancora ad esserlo – il sostegno alla piccola e media impresa (del Nord) e la “sicurezza” delle ville e delle famiglie “per bene” il cavallo di battaglia della Lega e dell’Italia dei Valori, esibito – anzi, violentemente urlato – nelle piazze. Identica è la barra della politica economica del M5S. Quando lo esplicita, è sempre il punto di vista dell’impresa a prevalere, mai quello del lavoro: non mi risulta, ad esempio, che anche solo una minima parte dello stipendio dei parlamentari sia stato devoluto a casse di resistenza degli operai o, in generale, a sostegno delle tante lotte e delle tante vertenze che nel tempo della crisi si sono aperte a ritmo quotidiano nelle fabbriche in dismissione.

Se questo confronto ha un qualche elemento di verosimiglianza, è palusibile ritenere che il M5S, soggetto politico “filo” e non “anti” sistema, sia solo all’inizio di una parabola già rodata da altre forze politiche, a maggior ragione se inseriamo nel ragionamento anche un altro elemento: il cospicuo travasamento di voti del centrodestra sui candidati grillini, come ci confermano le indagini sui flussi.

  1. Lo schieramento che troppo sbrigativamente avevamo dato per morto, proprio in questa tornata si dimostra, se non vitale, certamente esiziale.

Bisogna ammettere che il centrodestra non ha mai avuto una struttura organizzativa tradizionale. Piuttosto, per molti anni si è configurato come una infallibile macchina di coordinamento nazionale di notabili di provincia, imprenditori e faccendieri – con il seguito dei propri avvocati –, che oggi, soprattutto dopo il fallimento del “Nazareno”, si ritrova spappolato nei suoi organigrammi. Quella struttura, tuttavia, pure indebolita nella sua articolazione politica nazionale, si giova ancora delle immarescibili reti locali che riesce all’occorrenza ad attivare. Nel guado di un mutamento del sistema politico ancora agli inizi, è possibile ritenere che il movimento di Grillo rappresenti adesso per il centrodestra una sorta di “pensione dei voti”, una banca sicura in cui temporanemente tenere al caldo il consenso esistente, in attesa di mobilitarlo verso altri lidi e più schiariti orizzonti. Da questa collocazione, infatti, il centrodestra può esercitare una “pressione” vigorosa sull’interlocutore naturale adesso in difficoltà, il presidente del Consiglio, facendo intravedere innanzitutto i rischi insiti nella riforma elettorale che aveva partorito nella convinzione di mettersi in salvo in aeternum, nell’attesa di escogitare la formula giusta per la resurrezione del “Nazareno”.

  1. Arriviamo all’ultimo punto, forse quello cruciale. La direi con una battuta: il Pd non è Renzi, ma un soggetto politico complesso guidato da una componente che ha una idea precisa – e detestabile – della politica, della società, dell’economia. La compagine che fa riferimento al presidente del Consiglio, l’interlocutore primo della destra, come detto sopra, non vede nel proprio futuro altra collocazione che quella di governo, dentro e fuori, anche per una naturale formazione politico-culturale della gran parte dei suoi esponenti. Oltre ai “renziani”, però, nel Patito democratico è presente una nutrita componente radicalmente diversa, che esprime un personale politico in molti casi fine intellettualmente ma crepuscolare, che fino ad oggi non ha mostrato di avere chiara quella che un tempo veniva chiamata “la strategia” e si è raggomitolato in un tatticismo sterile e senza speranza. In ogni caso quest’area esiste, e seppur in un modo che io per primo ritengo inefficace, porta avanti una battaglia che in occasioni come questa potrebbe riprendere slancio.

Al di fuori del Partito democratico c’è l’arcipelago della Sinistra. Una Sinistra debole quanto e forse più delle forze che la compongono, impantanata in un processo costituente che stenta a decollare. Non ho dubbi che, in un modo o in un altro, entro la fine dell’anno si riuscirà a venire a capo di una serie di questioni, a partire dalla madre di tutte: lo scioglimento delle organizzazioni esistenti e lo svolgimento del Congresso, anche, ma non solo, per dotare il nuovo soggetto di un gruppo dirigente rinnovato e all’altezza della fase. Tutto ciò è necessario, tremendamente necessario, ma non sufficiente: non sufficiente a dotare la Sinistra di una rappresentanza nel contesto politico – e politico-elettorale – dato, non sufficiente a dare risposte alla drammatica sofferenza sociale, non sufficiente ad incidere sul quadro internazionale e su quello europeo. Per aprire questa prospettiva occorre cambiare rotta, e occorre farlo con realismo e intelligenza. Come? Irrorando il terreno del dialogo con la componente che, da sinistra, dentro il Pd, contrasta l’ideologia renziana, incalzandola sui contenuti e fornendole una sponda nella difficile e malcondotta battaglia politica che sta portando avanti, sfidandola nella costruzione di un progetto-manifesto per una nuova coalizione progressista in grado di suscitare passione, partecipazione, entusiasmo.

Se si ambisce ad essere un soggetto politico, se si vuole fare poltica, non si può nascondere la testa sotto la sabbia e far finta di nulla. L’esito dello scontro interno al Pd ci riguarda perché solo lo smottamento interno a quel partito potrà rimettere in pista anche noi, il soggetto della Sinistra che ancora manca.

 

Carmelo Albanese

 

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