Lo schianto nelle campagne di Puglia, a pochi chilometri dalla mole ottagonale di Castel del Monte, schianta non solo le vite delle vittime ma anche una visione dell’Italia, forse schianta proprio l’Italia.
I reportage della tragedia e dalla tragedia, improntati in molti, troppi casi a magnificare le capacità di intervento non tanto dei soccorritori, quelli veri, ma dei colletti bianchi assisi sulle varie poltrone a guardare le lamiere immersi nella climatizzata aura di una postazione multimediale, non hanno potuto sottacere alcune cose che non posso non elencare.
Intanto chi erano i passeggeri e quindi chi le vittime, tutta gente affollata su quei treni per dedicare la propria vita al lavoro ed allo studio, tutta gente, del Sud, indaffarata a fare quello che anche al Nord fanno quotidianamente gli italiani, anche quelli convinti che al Sud, a luglio si vada al mare e non al lavoro o a sostenere gli esami universitari.
Tra loro anche un contadino, un mio coetaneo, cinquantacinque anni, lì a lavorare tra i suoi amati ulivi e falciato letteralmente, lui che la falce la usava da immemore tempo, dalle lamiere dei due convogli impazziti. Anche lui a lavorare, terrone nella terra ed in terra atterrato.
Poi la risposta della gente, l’appello alla donazione finito in un lungo fiume, in una alluvione di donazioni. Grandi e piccoli, donne ed uomini, professionisti e studenti, disoccupati e pensionati, in fila, nel caldo, sventagliandosi con il biglietto della coda, mesti per la tragedia, composti per il proprio impegno morale e la propria enorme solidarietà. Così tanti da mandare in tilt la macchina dei prelievi, da far istituire un terzo turno, da far sì che l’emergenza rientrasse in poche ore. Un popolo che dimostra di esserlo così tanto da “fare famiglia” da muoversi come se ad aver bisogno fossero direttamente i propri cari.
Dall’altro lato cosa era la linea, una vecchia linea a binario unico, evidentemente priva di quelle misure tecniche minime essenziali atte ad evitare che la guida di due convogli potesse essere fatta solamente “a vista”. Inconcepibile che si possa parlare di “curva maledetta” laddove i due treni non si sono visti proprio per la curvatura dei binari in quel tratto. Oggi i treni vanno con ben più complessi automatismi e l’errore umano è e deve essere mantenuto ai minimi.
Già si parla dei ritardi burocratici per il progetto di raddoppio, di colpevoli disattenzioni, di “bizantinismi” degli uffici preposti, di anni ed anni per mettere a punto i provvedimenti di esproprio utili alla realizzazione del secondo sedime.
No, questa è l’Italia schiantata, un Italia dove da Orte in su, nonostante tutto, i pendolari viaggiano con ben maggiori comodità e sicurezze, dove da Orte in su, i materiali viaggianti di FF SS e consorelle sono ben più nuovi e moderni di quelli che ci toccano al Sud.
Guardiamo a casa nostra, la linea principale della Sicilia, quella che unisce le due maggiori città, Palermo e Catania, lunga poco più di 200 chilometri da stazione a stazione, è la linea che venne costruita alla fine del XIX secolo, è per la gran parte a binario unico ed è stata elettrificata solamente qualche anno addietro.
Il viaggio tra le due stazioni, oggi più veloce, dura, se non ci sono ritardi, 3 ore e quaranta minuti, alla velocissima media di… 58 chilometri l’ora.
Le tratte minori, che oggi sarebbero utilissime, come la Nicosia Caltagirone o la Regalbuto Schettino, per non andare lontano dalla nostra turrita città, vennero dismesse negli anni ’70 e stazioni, caselli, binari, sedime e gallerie, vennero abbandonati alla mercé di chiunque ne volesse far suo proprio uso.
Quindi che Italia è quella che corre veloce su treni fantastici, mentre l’altra, almeno ugualmente lavoratrice, solidale, fraterna, nonostante l’accento pugliese, lucano o siciliano, non può neanche immaginare di viaggiare per le sue esigenze perché le ferrovie sono appunto queste, le strade le vogliamo così appellare, e sempre più lo Stato scompare in una nuvola di chiusure?
E che Italia è, salto di palo in frasca ma la questione è, credetemi, la stessa, quella che consente alla Sicilia, la sua terra più bella e conosciuta, di morire soffocata da una montagna infinita di rifiuti?
Onore a quella gente, onore a quelle sorelle e quei fratelli pugliesi, cresciuti anch’essi all’ombra di una, ai più incomprensibile mole ottagona. Italiani? Lo erano? Lo siamo? Non lo so e non mi interessa, so solo che erano brava gente, come noi!
Giuseppe Maria Amato
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