mercoledì , Ottobre 9 2024

Leggero, come lo Stato

il-posto-regista-ermanno-olmiLe forme che può assumere lo Stato sono differenti, quasi come la “forma dell’acqua” esse sono date non dal contenitore ma dalla trama che il contenitore territorio ha dentro di se.
Un esempio tra i tanti la differenza tra una forma federale ed una forma centralizzata.
La forma ha poi una sua densità, lo Stato, che in fondo, in una sua visione moderna, è la comunità che ad esso si appartiene, si manifesta in ogni grumo che la comunità presenta. Un villaggio, una frazione, un paese o una città. Sono sempre facenti parte dello Stato, sono sempre aggregati grandi e piccoli della stessa comunità ed in essi si manifesta in qualche modo lo Stato con quei presidi minimi essenziali che ne garantiscono le elementari regole di sussistenza.
Un tempo la manifestazione più evidente era data dalla presenza di due fondamentali Autorità, quella civile, il Sindaco, la Giunta ed il Consiglio Comunale, e quella se volete militare, in realtà della forza dell’ordine che più si caratterizzava per la capillarità dei suoi presidi, la Caserma dei Carabinieri. A queste immancabili manifestazioni si accompagnava la presenza del Medico Condotto e della Scuola, piccola, rurale, scalcagnata, ma pur sempre scuola, pubblica e appartenente ad un’unica visione del Paese.
La società che è cresciuta con questa forma di Stato è stata quella che, nel bene e nel male, ha tirato fuori dal nero baratro del dopoguerra l’Italia, al di qua ed al di là degli Appennini.
Una società che è cambiata, ha visto scomparire la ruralità per il sogno industriale e poi ha visto crescere il sogno del terziario. Nel 1961 un giovanissimo regista destinato a grandi successi, presentò la sua opera prima, “Il Posto”. Quel regista era Ermanno Olmi e quel film, che fece furore in quei lontani anni del primo boom, descriveva la epopea del nuovo italiano evidentemente cadenzata su quella modalità di Stato.
Bene. Oggi quelle manifestazioni stanno scomparendo, come in un impero che si sia eccessivamente allargato e che non appare più difendibile da legioni che si sono sempre più allontanate dalla capitale e che sempre più sono pronte a assoldare genti di altre tradizioni e culture, così lo Stato non ce la fa a sostenere la rappresentazione di se stesso nei grumi periferici.
Scompare lo Stato della Giustizia, con la chiusura dei Tribunali, scompare lo Stato della Sicurezza, con la chiusura o la minimizzazione di presidi essenziali quali i Commissariati, le Caserme della Stradale, dei Vigili del Fuoco, della Guardia di Finanza. Scompare lo Stato della Sanità con una riforma, quella della Lorenzin, che, intenta a pensare al Fertility Day, immagina una desertificazione dei presidi ospedalieri su territori che per avere quei presidi hanno nel tempo impiegato enormi risorse e che a quei presidi hanno diritto in tempi e costi eguali o simili a quelli di ogni altro cittadino italiano.
Non so se tutto questo può essere riportato a questioni di mero carattere contabile, di soldi, di “picciuli”. Non so se tutto questo può addebitarsi come qualcuno fa, semplicemente all’essere parte di una Europa oggi quanto mai squilibrata su fatti di finanza e di banche, non so e, francamente, non mi importa. So, invece, cosa è la Politica, la possibilità che in democrazia viene data ad ognuno dei granelli di quel plasma che è la comunità Stato, di dire la sua.
Facendola, la Politica, forse più di quei figuri che son pagati per dirsi “politici”, non posso che giungere a due considerazioni. A Roma, evidentemente, si mira a pareggiare i conti anche a costo della desertificazione delle periferie dello Stato. Qui, periferia della periferia, dopo un’era di satrapi e pascià, non passa giorno che non scompaia un pezzo di quello Stato che dovrebbe invece manifestarsi a maggior ragione durante i momenti di crisi della società. Potremmo quindi giungere ad una soluzione gordiana, come Alessandro Magno dinanzi all’inestricabile nodo di Gordio, potremmo andar di spada (metaforicamente) ed autoamputarci da questo Stato sempre più romano e sempre più distante.
Avremmo i nostri grandi problemi, rischieremmo di tutto di più, ma, intanto, gli avremmo fatto pareggiare i conti, noi, costosissimi cittadini dell’isola ingrata. Non dovrebbero più fare il ponte, potrebbero tranquillamente recidere quei cavi sottomarini che collegano elettricamente capo Peloro all’Aspromonte, e, potrebbero pure portarsi un po’ di gente, ad iniziare da Crocetta.
Fantapolitica? No, non fino in fondo, sia chiaro. Le società non sono mai immuni ai cambiamenti drastici, lo abbiamo imparato nel 1991 con le rivolte russe e l’implosione dell’URSS di Gorbaciov, lo abbiamo rivisto nei Balcani e lo predice Amartya Sen (premio Nobel per l’economia nel 1998) per la gigantesca Cina. Non si può pensare di svuotare di ogni funzione i gangli vitali della società continuando a pretendere dalla stessa quella adesione ideale ad una visione, me lo si lasci dire, suicida. O l’impero decide di assumere forme diverse, o è destinato a soccombere perché le sue stesse legioni saranno corpi estranei a quella idea di Stato che vige come fantasma nella capitale.
Si andrà presto al voto regionale, per scegliere 70 deputati a Sala d’Ercole, la stragrande maggioranza di quelli che oggi vi siedono saranno definitivamente cancellati dall’elenco dei “politici” o, se ben visti dalle segreterie del partito (quell’unico partito italiano con tutte le sue stupide e vuote sigle), potranno essere nominati deputati dell’unica, esautorata camera romana. Nel frattempo la gente rimarrà sui tetti della ex Provincia, a reclamare un’attenzione che non arriva e i “politici” ancora lì a fotografarsi divertiti, fingeranno di siglare “patti per la Sicilia” nei quali si elencano decine e decine di opere pubbliche che avrebbero dovuto essere parte di politiche ordinarie e non di patti della più straordinaria straordinarietà.
Qui, in questa annichilita periferia, non passa giorno che non si rischi il tifo per le immense montagne di rifiuti, che non si veda bruciare un pezzo di territorio, che non cada un viadotto, che non scompaia una scuola, un presidio ospedaliero, un ufficio, un cartello con su scritto “qui c’è lo Stato”.
La società civile, che Stato è come diceva il Principe de Curtis “a prescindere”, a questo punto deve far lo Stato.

Giuseppe Maria Amato

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