La soppressione inopinata delle Istituzioni svuota la “società di mezzo”
di Massimo Greco
All’annuncio dell’ennesima soppressione di un Ufficio periferico dello Stato nella già martoriata provincia di Enna seguono puntuali le reazioni e le iniziative delle forze sociali per indurre il Governo alla ragione, alla stregua di quanto già fatto (e per la verità ottenuto) in occasione del più volte paventato accorpamento della Prefettura. E tuttavia, se la questione non viene letta in chiave sistemica si rischia di riparlarne in modo atomistico ogni qual volta si presenta il problema.
Esistono infatti Istituzioni, giurisdizioni o unità amministrative che, inevitabilmente, col passare del tempo e con lo sviluppo socio-economico, non corrispondono più alle esigenze di governo di un territorio in continua evoluzione che spesso non coincide con quelle intelaiature pubbliche. Questo era vero nel passato, lo è di più nei tempi più recenti, in cui i fatti sociali sono sottoposti a un’evoluzione assai più rapida.
A fronte dell’inesausta invenzione di partizioni che emerge dalle spinte locali e dalla iperterritorializzazione delle più recenti politiche pubbliche (distretti socio-sanitari, società d’ambito per la gestione dei servizi pubblici locali, consorzi universitari, gruppi di azione locale, fondazioni per la promozione di studi scolastici ad indirizzo specialistico, aziende speciali e la galassia delle società pubbliche in housing), le implicazioni territoriali dei nuovi ritagli sono state tuttavia eluse o affrontate finora in modo assai confuso dal discorso politico e nelle stesse pratiche della governance. È di tutta evidenza, nel difficile clima politico e sociale che sta vivendo lo Stato italiano, l’urgenza di manovre di contenimento della spesa pubblica che rendano non più procrastinabile uno snellimento e una semplificazione dell’intricato mosaico amministrativo nel suo complesso. La morale della favola federalista che ha accompagnato la Seconda Repubblica, è infatti che senza regole e principi ben chiari e condivisi il policentrismo italiano dà il peggio di sé: deprime e non rafforza il già deludente senso dello Stato. La crisi strutturale che in questa fase sta scuotendo le economie occidentali, in Italia si salda alla più grave crisi politico-istituzionale vissuta dal Paese dalla nascita della Repubblica, frutto della miopia – espressa in modo trasversale da quasi tutti i partiti – e sancita dalla rinuncia a qualsiasi autentica riforma innovativa.
Ora, non si tratta, pertanto, di scegliere con furore iconoclasta una delle due polarità: o Bruxelles e la Banca Europea o il localismo rancoroso, né di difendere ciò che può apparire indifendibile, vecchio, superato. Ma di rivalutare e ricostruire la “società di mezzo”, accompagnandola e stimolandola all’autoriforma più che delegittimandola dall’alto. Quello spazio intermedio che sta tra i flussi della crisi e della globalizzazione e i luoghi, tra la simultaneità delle reti e delle economie aperte e le prossimità dei processi territoriali, tra la dimensione “liquida” della tentata contro-riforma del Titolo V° della Costituzione, delle ultime leggi elettorali (Porcellum e Italicum) e dei cinguettii che riducono lo spazio pubblico e ciò che resta sul territorio: lavoro, imprese, povertà e fame di convivenza. Per cui la tentazione della “disintermediazione” di cui parla De Rita – pur comprensibile di fronte all’eccesso di concertazione giustamente criticato, resta nuda di fronte alla complessità sociale.