La depressione appare a volte un lusso, non soltanto a livello di possibilità economiche di cui si dispone per potersela “permettere”, ma anche per ciò che attiene alle dinamiche intra-psichiche di chi possa soffrirne.
Queste ultime, infatti, non la consentono a tutti. In particolare, non la consentono a chi, di depressione potrebbe morire interiormente. A chi, costretto a fare i conti con la propria vita, ne rinvenisse un bilancio fallimentare. E soltanto quello. Senza appigli, o ulteriori elementi di contrasto.
Si è soliti dire, in proposito, che più dura è la corazza che ci riveste (tutti) più fragile è l’ anima che la indossa.
E questo vale anche in senso diacronico, all’ interno della storia della vita di ciascuno di noi: siamo, a stretto giro di eventi, ora più fragili, ora più solidi, rispettivamente con pochi o molti appigli di contrasto antidepressivi.
Grazie alla “ri-narrazione”, è possibile, individualmente o in un rapporto psicoterapeutico, rileggere la propria vita, attribuendole sembianze più accettabili a se stessi e meno nocive agli altri.
E tali attribuzioni non possono non tener conto dell’ intuizione di Freud (ora) ampiamente accettata e condivisa, secondo cui i confini tra salute e malattia mentale, equilibrio e disequilibrio, normalità e patologia, risultino essere quasi sempre labili, cangianti, “mobili”. Giacchè le componenti che ne determinano l’ una o l’ altra condizione sono presenti comunque, in ciascuno di noi; e ciò che cambia sono piuttosto le quantità con cui sono presenti nelle dinamiche interiori e i rapporti di forza tra esse e i meccanismi di compensazione adattivi.
In fondo, il pessimismo quasi cosmico di un uomo che certo non poteva considerarsi “fallito”, quale Jean- Paul Sartre, lo ha portato a scrivere che “l’ histoire d’ une vie, quelle qu’ elle soit, est l’ histoire d’ un echec”.
E quello, appena più attenuato e venato di ironia di Winston Churchill, che “ Il successo consiste nel riuscire a passare da un fallimento all’ altro senza perdere l’ entusiasmo”.
Poiché sembra che la collettività abbia abbastanza acquisito l’ intuizione di Freud suesposta (e la ritrovi, oggi più che mai, nelle vicende dell’ attualità contemporanea), le interazioni sociali e comunicative potrebbero e dovrebbero farne tesoro. Le frequentissime, spesso involontarie e inevitabili, intromissioni nei livelli nascosti e fragili del prossimo, dovrebbero fare molta attenzione a non lederli. A non produrre vulnus, e, per quanto possibile, aggirare con discrezione quelli esistenti.
In fondo, il vecchissimo e basilare principio giuridico del “neminem ledere”, sembra particolarmente adatto ad assumere anche sembianze psicologiche (quelle esistenziali le ha già).
E per esse non ci sarebbe bisogno di particolari competenze tecniche. Occorre il buon senso e la capacità di avvertite il malessere , anche appena accennato, degli altri.
I rapporti umani sembrano abbastanza predisposti a ciò. Almeno nella cerchia personale e affettiva più prossima. Quelli civili, si intende.
Ma è vero anche il contrario. A livello di interazioni macro-sociali essi coesistono con avvilenti spinte alla ordinari età del male. Viviamo in tempi di grande rispetto e di grandi offese. Si acuiscono, al contempo, le solidarietà e i vulnus. E questi ultimi appaiono sempre più intollerabili, a causa delle affinate sensibilità che permeano le componenti più civili e mature della società.
Siamo, contemporaneamente, più amorevoli e più spietati. Più buoni e più malvagi. Più sensibili e più ottusi.
Ciascuno di noi potrà ritrovare in se stesso queste e altre dualità (senza illudersi, possibilmente, che esse appartengano soltanto agli altri).
Mentre , a livello sociale, possiamo ravvisarle nei gesti più puri, adamantini, altruistici e in quelli più efferati e odiosi. Tra i primi possiamo ovviamente includere le molteplici forme di solidarietà, di gratuità, di dedizione donativa e disinteressata che caratterizzano il volontariato; tra i secondi, le vesti di nuova barbarie che assume la violenza nelle società contemporanee.
Il terzo millennio sembra essere iniziato con il prevalere di queste ultime.
Il pianeta appare sempre più irretito in una “Terza guerra mondiale a pezzi”, come l’ ha definita Papa Francesco.
Le manifestazioni di violenza spaziano da quelle più brutali ed eclatanti, fino a quelle più subdole, sottili, immateriali. Sono rivolte al singolo come alle comunità variamente strutturate. Si dirigono verso gli esseri umani, verso il pianeta, verso l’ esistenza stessa.
Quanto di tutto ciò è imputabile al capitalismo?
La questione è talmente controversa che ogni tentativo di affrontarla rischia si sconfinare nell’ esercizio retorico! Ma, per tentare di evitare sia tale esercizio che l’ inutilità dell’ inazione comunicativa, potremmo dire che una plausibile risposta sia questa: il capitalismo ne è moltissimo responsabile. Ma con un’ aggiunta di fondo: che esso appare, in tutta evidenza, come l’ unico sistema socio-economico che sia (da se stesso) emendabile, correggibile, potremmo quasi dire malleabile …
Come è noto, il capitalismo ha da sempre assorbito, incorporato o fagocitato le forze di opposizione che sono esistite al suo interno. E lo ha fatto non (o non sempre) con l’ uso della forza (di cui, pure, i suoi Stati si riservano legalmente il monopolio ). E’ riuscito in ciò, prevalentemente, attraverso un continuo cambiamento delle sue caratteristiche, più o meno strutturali.
Ci è riuscito tramite l’ assimilazione. Tramite la capacità (potremmo perfino dire l’ umiltà) di accogliere le istanze ideali e concrete dei movimenti che gli si contrapponevano.
Ciò che prima non era capitalistico, lo è gradualmente diventato. Ciò che prima era per definizione “sovversivo” , “rivoluzionario”, “antitetico”, è diventato compatibile, includibile, o addirittura organico al sistema capitalista.
Tutto questo è avvenuto, si, attraverso spietati conflitti sociali, ma pur sempre tramite lo strumento della legge.(Sia pure, spesso, a giochi fatti).
Cosa che ha permesso a questo sistema di divenire (anche) liberal-democratico, social-democratico, cristiano- democratico. E di non fare – finora – la fine dell’ “apprendista stregone”, che evoca e mette in moto forze che non riuscirà a controllare, venendo così da esse annientato.
La famosa affermazione di W. Churchill è diventata quasi un “caso di scuola”, ricorrente e molto utilizzato: “ La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre che si sono susseguite nella Storia”.
E’ ,tuttavia, molto comune la consapevolezza, e anche la sensazione concreta, che il meccanismo si sia inceppato. E Che i “vulnus” al sistema – a tutti noi – superino, per la prima volta in modo irreversibile, le capacità di correggere e rigenerare, di ricucire ciò che si è colpevolmente rotto. Si parla così, in modo ricorrente, ma, credo, non retorico, di “svolte epocali”, “processi irreversibili”, “scelte ineludibili”, “urgenze”, “emergenze”, “scadenze”.
Sarebbe superfluo elencare a quali ci si riferisce. Ma possiamo immaginare che essi scandiranno, d’ ora in avanti, il tempo residuo, rigenerante,di cui dispone il sistema- mondo. Il tempo in cui sarà ancora possibile il rabberciamento dell’ esistente e la ricucitura dei vulnus.
Il tempo utile per far si che la società “dell’ empatia”, quale individuata e auspicata, nella nostra, dall’ economista-ecologista americano Jeremy Rifkin, non sia “inibita alla meta” nei suoi intendimenti più significativi, fondanti, preziosi. E le scadenze non siano scadute.
Giovanni Rotolo