venerdì , Febbraio 7 2025

Femminicidio: “le parole per dirlo”

Femminicidio: “le parole per dirlo”
di Giovanni Rotolo

Lo sgomento che prende tutti noi che abbiamo a cuore le sorti del nostro paese, o, più semplicemente, tutti noi persone civili, rischia di paralizzarci e tacitarci di fronte all’ orrido stillicidio di donne uccise da mani maschili.
Ma questo sgomento comporta anche un altro, più subdolo, pericolo. Quello di impedirci i salti di qualità, che, credo, le reazioni al femminicidio dovrebbero adesso, finalmente, compiere.
E che sarebbero resi possibili, o quantomeno facilitati, ricorrendo a un cambio di “paradigma”. Di quel paradigma con cui abbiamo finora guardato, narrato, avvicinato questa spaventevole, triste realtà.
Questi salti di qualità possono essere individuati in tanti e diversi ambiti.
E, dando ovviamente per scontata la fondamentale importanza degli interventi educativi-formativi a qualsivoglia livello (sentimentale, sessuale, psicologico,civico , di supporto a vittime e violenti), vorrei sottolineare altri due aspetti non secondari delle necessarie reazioni che la società dovrebbe mettere in atto.
Quello del linguaggio utilizzato nel raccontare tali crimini. E quello delle misure di prevenzione sociale (immediata) e di repressione (si può dire?..) nei confronti degli stessi.
1)Per quanto riguarda il primo, sarebbe, credo, molto utile cominciare a dismettere (o a ridurre la frequenza dell’ uso insistito di) locuzioni e qualificazioni degli assassini, quali “amante”, “spasimante”, ex-fidanzato”, “amico”, “compagno”,etc…
Esse non fanno che “colorare” di contorni pseudo-romantici il rapporto tra le vittime e i loro carnefici, senza nulla aggiungere all’ informazione e alla comprensione dei fatti. E’ sufficiente dire che la vittima (lei si!) era legata sentimentalmente a colui che l’ ha uccisa.
Gli uomini che uccidono le donne, infatti, non sono amanti (“lovers”) perché non amano e non conoscono l’ amore; non sono spasimanti perché non spasimano per una donna, ma unicamente per il suo possesso; non sono amici, perché hanno soltanto un interesse egoistico e tutt’ altro che amichevole. (Scrive Alberoni che “l’ amico è colui che ci aiuta a prendere il mondo”. Quindi non certo ad uscirne.) Non sono fidanzati, o ex-tali, perché non meritavano e non meritano la fiducia (“fides”) che hanno ampiamente e vilmente tradito. Non sono compagni, perché la parola (bellissima, da “cum panis”), sottintende la specificazione “di vita” (non certo “di morte”).
Non sono nemmeno mariti o ex-mariti (se non per l’ anagrafe) perché il matrimonio non è soltanto un vincolo giuridico, bensì anche morale, che presuppone l’ amore, l’ affetto, o quanto meno il rispetto,
per tutta la vita.
Cosa sono allora? Semplicemente, squallidamente, degli assassini. E come tali mi sembrerebbe più veritiero, sincero, appropriato chiamarli e definirli, anche nel linguaggio giornalistico e della comunicazione sociale.
2) Viceversa, alcune altre parole e frasi, cui dovremmo, credo, dare maggior spazio e risalto, sono quelle che esprimono le circostanze aggravanti, e non quelle attenuanti, dei femminicidi.
Ad esempio, l’ aggravante dei “futili e abietti motivi”; l’ aggravante dell’ uso di armi (vieppiù odioso in quanto esercitato su persone inermi); l’ aggravante dello squilibrio (quasi sempre a svantaggio della donna) nelle situazioni economiche, abitative, lavorative; l’ aggravante dello squilibrio di forza fisica e propensione all’ aggressività tra vittima e carnefice; e, soprattutto, l’ aggravante della reiterazione dei comportamenti violenti. Della loro “ascesa” da quelli della violenza psicologica, a quelli del maltrattamento “familiare”, a quelli della violenza fisica.
Tendenza, questa, che, come è noto, sposta sempre più in alto e lontano, nelle vittime, la soglia della capacità di tolleranza; dell’ assuefazione alla sofferenza; della percezione del pericolo concreto.
3) Ma, come è ovvio, per poter avere significato e credibilità, le parole e le narrazioni devono essere affiancate dai comportamenti concreti.
E, tra questi ultimi, appare evidente la discordanza tra i comportamenti volti ad ottenere risultati positivi nel medio-lungo periodo e i comportamenti di immediata attuazione e prevenzione dei crimini.
I primi appaiono infatti, compatibilmente con le poche risorse economiche di cui dispongono, ben costruiti, ideati e condotti. I secondi gravemente, colpevolmente inadeguati.
Se, come sembra, la “ nuova frontiera” dei primi, (costituita dal supporto psicologico agli uomini violenti) comincia a dare dei buoni risultati, le vecchie inadempienze degli organi giudiziari e istituzionali appaiono spesso sinceramente sconvolgenti.
I casi di uomini più volte denunciati, diffidati, segnalati, arrestati o sottoposti a misure di sicurezza, che reiterano i crimini, violentano, uccidono le donne, ci dicono che c’ è qualcosa, o molto, da rivedere nelle politiche di prevenzione e repressione della violenza di genere.
Se è vero che , come scriveva Keines, “Nel lungo periodo saremo tutti morti”, sarà anche plausibile preoccuparsi del breve termine e dell’ immediato.
Non dovrebbero più essere considerate scandalose o liberticide misure quali il braccialetto elettronico, l’ inversione dell’ onere della prova nei processi per stupro, l’ obbligo di firma al commissariato di Polizia a intervalli di tempo più ravvicinati, il poliziotto di quartiere, la non possibilità di ritirare le denunce sporte dalle vittime (o, quanto meno, l’ attribuzione ad esse di una qualche rilevanza giudiziaria), e tante, auspicabili, altre.
I più grandi vulnus alle libertà, ai diritti, alla giustizia sociale, non derivano certo dagli argini (doverosi) che la società e lo Stato democratico tentano di erigere contro la sconsiderata ed efferata violenza di genere.
Derivano dall’ evidente e impotente constatazione che la società stia accettando – di fatto e nella sua “Costituzione materiale” – la sua auto-menomazione: l’ allontanarsi, tristissimo e terribile, quasi quotidiano, delle sue
componenti più sane, mature, donative, generative, vivifiche.

 

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