Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Un paese ci vuole. Un paese come il mio magari.
Un paese fatto:
– di cose e case “sdirrupate”, fra le pietre che furono il paese e che altrove diventano pepite, da noi invece si “allippano”, fra le tenebrose intercapedini dell’ondulina o agonizzano fra i “si potrebbe”, i mah ed i “èstatacostituitaunacommissioneapposita perlarisoluzionedelproblema”.
-Di puzzo d’antico che diventa memoria nella scrittura di chi lo pensa ancora possibile e di caffè, che da noi è cafè, consumato fra “cummari e cumpari” portatori dell’intramontabile: “ai miei tempi”. Originalità reazionaria e necessaria come la rassegnazione dei sedentari, allegramente aderenti alla mediocrità contingente.
-Di chi cerca di insegnare quello che non sa a chi ha compreso la beata letizia dell’abulica ignoranza.
-Di ego ipertrofici e di ipertrofiche meschinità, mormorate alla maniera 2.0. in quell’ouverture di post illuminati e illuminanti, generosamente elargiti dai frequentatori l’essenza dell’essere, permanentemente innovativi sulle questioni immutabili, rivelatori dell’escatologia facebookiana.
-Di chi pratica il costume dell’abbandono alla foia, di parola almeno. Ieraticamente seduti su scranni di paglia, i censori dei deretani, selezionano i locali dai forestieri per dovere: è una tipicità indigena a rischio estinzione.
ASSOLUTAMENTE necessaria per la salvaguardia della vaniloquenza locale e della prosopopea d’antan. Si mormora che le prossime amministrative prometteranno insieme al recupero della “zonastorica” un calco callipigio al posto del leone monco. Alto e tondo sulla rotonda.
Amo profondamente questo mio paese e il mio amore si fa ancora più forte quando penso a tutto quello che si distrugge per ricostruire esattamente quello che è stato distrutto, godendone come della pagina bianca, Mallarmè.
Gabriella Grasso
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