Ci stavamo illudendo, non ne avevamo motivo. Adesso Barcellona. Prima, Parigi. Prima ancora Londra, due volte. Andando indietro: Stoccolma, Londra, Berlino, Nizza. In poco più di un anno, otto attentati con la stessa tecnica, orribilmente semplice: falciare la folla con un mezzo a motore. Gli assassini non hanno fantasia; noi non abbiamo memoria. È umana e comprensibile, questa rimozione. Ma non ce la possiamo permettere. Le autorità di Barcellona hanno invitato i presenti a non diffondere foto e video della strage. Lo hanno fatto, in catalano, i Mossos d’Esquadra e in spagnolo la Policìa Nacional, attraverso Twitter. Non è servito. Internet è spietata. Ieri sera rimpallavano ovunque immagini raccapriccianti, girate da vicino: corpi a terra, soli, nei minuti sospesi terribili fra la fuga di massa e il ritorno della consapevolezza collettiva. Si vedono bambini e giovani donne immobili sulle onde bianche della pavimentazione delle Ramblas. Si vedono le pose innaturali dei corpi, i vestiti sollevati, le scarpe spaiate e smarrite, il sangue scarlatto che sembra finto, cinematografico.
Si sentono pianti e lingue mescolate. Voci gridano piangendo «hijos de puta» («figli di puttana») e «malditos» («maledetti»). Ma cosa importa di tutto questo ai mostri distanti dell’Isis? La loro idea di guerra è uccidere ragazzi a passeggio, un giovedì sera d’estate. Se hanno un dio, chissà come si vergogna di loro. Alla nausea davanti all’orrore, s’aggiunge le vergogna colpevole della ripetizione. Cosa possiamo dire che non abbiamo già detto? Cosa possiamo raccontare che non abbiamo già raccontato? Le dirette televisive, i siti web, le immagini e le notizie sono simili a quelli che hanno segnato l’estate 2016, e poi l’autunno, e poi l’inverno, e poi la primavera del 2017.
Può apparire crudele chiederselo ora: ma com’è possibile che un furgone possa infilarsi lungo le Ramblas, scendere a zig zag per 600 metri e falciare la folla, nel picco della stagione turistica? Mentre il livello di allerta in Spagna, da due anni, è 4 su 5? Com’è accaduto che la celeberrima passeggiata non fosse, in qualche modo, protetta? Il luogo è iconico: come Trafalgar Square a Londra, gli Champs Élysées a Parigi, il Colosseo a Roma, piazza del Duomo a Milano. E non c’è dubbio che i nostri nemici islamisti, attraverso i loro disgraziati manovali locali, cerchino proprio questo: colpire luoghi simbolici in città simboliche, in modo da amplificare il terrore.
Questo non rende prevedibili gli attacchi. La prevenzione assoluta è impossibile, purtroppo. Ma l’orrendo modus operandi dei terroristi dell’Isis appare chiaro. Oltre ai luoghi simbolici, prendono di mira posti affollati: la passeggiata di Nizza, il mercato di Berlino, il concerto di Manchester. Oppure sale da concerto, stadi, chiese. In una sorta di spaventosa economia degli sforzi, vogliono fare molto male in poco spazio e in breve tempo. Sapere questo non ci rende invulnerabili, come abbiamo visto; ma un po’ meno vulnerabili forse sì.
Una seconda considerazione, amara: le modalità dell’attentato descrivono i gesti disperati di una forza sconfitta. Non c’è niente di più facile che uccidere un essere umano con un mezzo a motore. È la banalità della strage, non per questo meno sconvolgente. Ma dimostra — una dimostrazione di cui avremo fatto a meno — che le forze di sicurezza europee stanno facendo un buon lavoro. Gli industriali del terrorismo sono fermi; al loro posto, gli artigiani del terrore. Di cui dovremmo aver capito i metodi. Quanto è accaduto ieri sera prova che non è così.
Un’ultima considerazione, dolorosa e doverosa: un grande continente libero come l’Europa non può piegarsi davanti ai colpi di coda di un’ideologia primitiva, che sta perdendo territorio e consensi. Certo: anche questo lo abbiamo detto e ripetuto. Ebbene: in giornate come queste, dobbiamo ripeterlo ancora, con forza. Occorre capire come disinnescare le schizofrenie identitarie — gli assassini, anche stavolta, sembrano cresciuti tra noi — ma non c’è dubbio: il giorno in cui tutto questo sarà finito per sempre non è lontano. Ma non sappiamo quant’è vicino, purtroppo.
by Beppe Severgnini per il Corriere della Sera (ha collaborato Andrea de Cesco)