Che cos’è il Pd di Renzi? Ad una tale domanda viene da rispondere con le parole che usò Antonio Gramsci nel definire il Psi degli anni Venti del Novecento nell’articolo comparso su “L’Ordine Nuovo” il 15 giugno 1921: un circo Barnum dove ogni italiano liberamente può fare i suoi giochi. Non è un’esagerazione. E’ una constatazione. La mozione parlamentare dei democratici, ispirata dal segretario Matteo Renzi e da Elena Boschi, che mette nel mirino il governatore della Banca d’italia, Ignazio Visco, è definita dal deputato del Pd Marco Meloni “un blitz, un atto di teppismo parlamentare che squassa l’equilibrio tra le istituzioni” (Corriere della Sera del 21 ottobre). Come se non bastasse, il deputato democratico, non ascrivibile al giglio magico, accusa Renzi di preparare la campagna elettorale e di cercare di allontanare le sue responsabilità sui ritardi con cui è stata gestita la vicenda banche. Non deve stare sereno il presidente del consiglio Paolo Gentiloni se, secondo quanto riferisce il Corriere delle Sera del 22 ottobre, ha commentato l’affaire della mozione contro il governatore della Banca d’Italia con l’epiteto “che caz…ta”. E’ il brandello di voce di cui il quotidiano milanese ha testimonianza. Per il ministro alla Difesa Roberta Pinotti del Pd, quella mozione forse non doveva essere messa in discussione in Parlamento (la Repubblica del 21 ottobre). Alla domanda del giornalista che gli chiede perché il Pd si è diviso sui referendum consultivi promossi dai governatori leghisti del Veneto e della Lombardia per rivendicare più autonomia alle loro regioni, il vicesegretario del Pd, Maurizio Martina se la cava rispondendo che il Pd ha lasciato ai suoi militanti ed elettori libertà di voto (la Repubblica del 22 ottobre). Due sindaci del Pd Giuseppe Sala di Milano e Giorgio Gori di Bergamo hanno voto sì al referendum mentre il bergamasco vice segretario del Pd, Martina, si è astenuto. Il Pd regionale veneto si è schierato per il sì con Luca Zaia.
E’ un mistero cosa ne pensa di questi due referendum consultivi il segretario del Pd, Matteo Renzi, che sta girando in lungo e in largo per la penisola in treno, ma non viene in Sicilia dove si sta giocando una partita con evidenti riflessi sul piano nazionale nella quale il suo partito arranca faticosamente. I malevoli sospettano che abbia escluso dal suo tour di fare tappa anche in Sicilia perché il Pd dalle elezioni regionali del 5 novembre ne uscirà con le ossa rotte.
Basta soffermarsi a pensare a quello che è successo in provincia di Enna per la scelta dei candidati del Pd alle regionali trasformatasi in una guerra per bande dove abbiamo visto di tutto: trasformismo e disimpegno dalla campagna elettorale perché qualcuno è stato escluso dalla lista. Se la politica è una sorta di guerra condotta con altri mezzi, come ha teorizzato il generale prussiano Carl von Clausewitz e come la pensavano Lenin e Mao-Tse Tung, si può ben capire cosa possa significare il disimpegno in una campagna elettorale che equivale ad una battaglia condotta con altri mezzi.
Per il Pd le elezioni regionali del 5 novembre saranno una Caporetto, ma senza alcuna speranza di una Vittorio Veneto. Ma a Renzi interessa solo curare la sua immagine in vista delle elezioni nazionali del 2018 perché in cuor suo coltiva l’ambizione di tornare a fare il premier.
Ma con l’aria che tira vien da dire: campa cavallo!
Silvano Privitera
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