La gestione in house dei rifiuti aumenterà il costo del servizio
di Massimo Greco
Una delle patologie più recenti che si registra nella gestione dei rifiuti, quale conseguenza dell’assenza di controlli esterni di cui abbiamo già parlato, è la pratica diffusa degli affidamenti in house del servizio di raccolta dei rifiuti da parte di quei Comuni che sono stati (paradossalmente) autorizzati dalla Regione a frammentare l’ambito territoriale ottimale in tanti piccoli ambiti di raccolta ottimale (!?). Gli affidamenti sono stati operati nei confronti di società a partecipazione pubblica comunale (anche congiunta) costituite per l’occasione e al solo scopo di scongiurare il ricorso al mercato concorrenziale. Come si sia potuto consentire l’affidamento in house di un importante servizio pubblico a rilevanza economica a contenitori sostanzialmente vuoti, perché sprovvisti di risorse strumentali, di risorse umane e di capacità operativa dimostrata, è una domanda che può trovare immediata risposta solo nell’assenza di adeguati controlli esterni e nel disinteresse degli operatori economici del settore che nulla hanno eccepito rispetto all’esautorarsi progressivo del loro mercato. Non ci risulta infatti alcun contenzioso pendente al TAR su ricorso di imprese private interessate a garantire una libera concorrenza per un servizio pubblico locale come quello della raccolta dei rifiuti. Ma se sulla seconda causa poco o nulla si può commentare trattandosi di interessi comunque riconducibili alla sfera privatistica e come tale discrezionale, è sulla prima causa che ci piace sottolinearne alcune anomalìe, cioè quella riconducibile alla sfera dell’interesse pubblico alla cui cura, almeno in teoria, dovrebbero essere preposte le Istituzioni. Infatti, è curioso il comportamento di alcuni Amministratori locali (legalizzato da una compiacente Regione) volto ad andare contro tendenza rispetto alle politiche di contenimento della spesa pubblica introdotte nell’ultimo decennio dalla legislazione statale e finalizzate ad eliminare l’esposizione degli enti locali al rischio imprenditoriale, limitandone l’attività all’esercizio delle funzioni di amministrazione attiva. La volontà del legislatore statale è stata quella di evitare che soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero per la produzione di servizi di interesse generale…al fine di eliminare eventuali distorsioni della concorrenza.
In tale nuovo contesto ordinamentale, l’orientamento più rigoroso della Corte dei Conti rende possibile la costituzione di nuove società a partecipazione pubblica per lo svolgimento di attività istituzionali dell’ente medesimo ma non per attività (soltanto) collegate ad attività istituzionali. Ed è proprio questo il caso delle società pubbliche recentemente costituite da numerosi Comuni siciliani per lo svolgimento di un servizio non strettamente connesso all’attività istituzionale dell’ente Comune. Peraltro, ove la contestata legge regionale del 2013 si dovesse interpretare nel senso di un’implicita attribuzione ai Comuni, singolarmente o in forma associata, della realizzazione e localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti, si porrebbe in contrasto con la normativa statale, violando da diversi punti di vista il principio di unicità verticale e orizzontale della gestione all’interno dell’ambito ottimale. A ciò va aggiunto l’inevitabile aumento complessivo del costo del servizio non solo per l’evidente impossibilità di raggiungere economie di scala in ambiti territoriali troppo piccoli per definirsi ottimali, ma per la necessità di remunerare l’avvenuto reclutamento di figure esterne ed aggiuntive rispetto alle risorse umane già esistenti: gli amministratori delegati.