Il Papa in Sicilia. Un messaggio di speranza. Un no al pessimismo, alla rassegnazione, alla logica dell’irredimibilità, illuminati dell’esempio del beato Pino Puglisi

Si è conclusa la tanto attesa visita del Papa in Sicilia, l’eco dei suoi discorsi e della sua omelia non si spegnerà con la sua partenza ma resterà, o almeno dovrebbe restare, nelle orecchie e nel cuore dei siciliani per sempre, guida e monito alla quotidianità del vivere cristiano o semplicemente del vivere in modo umanamente utile a se stessi e agli altri. A Piazza Armerina il dono della sua presenza, fugace ma intensa, che ha toccato gli animi e lascerà un segno tangibile nella storia della città e della diocesi. Ma le folle che si sono raccolte a Piazza non possono sciogliersi prima di avere introitato i tre discorsi di Palermo in cui, in modo diretto, netto, senza fronzoli e formalismi, Francesco ha richiamato giovani e anziani, consacrati e laici al vero senso dell’essere cristiani oggi, seguendo anche l’esempio del beato padre Pino Puglisi. Una sorta di moderno discorso della montagna in cui le esortazioni e i precetti sono stati sottolineati dalle ripetizioni, i concetti  fondamentali enfatizzati e accompagnati da metafore e gesti inequivocabili. Ancora pimpante la mattina a Piazza quando, salito sul palco, ha salutato il sole di Sicilia “Avete un bel sole!”; dove i tempi incalzanti, le esigenze protocollari non gli hanno impedito di lanciare messaggi pieni di speranza ma anche “ruvidi” nel loro pragmatismo. Non sarà piaciuto molto ai sacerdoti presenti il monito, a limitare la dilatazione delle celebrazioni eucaristiche e delle omelie a tempi quasi contingentati, sottolineato da un convinto applauso della folla. Non è piaciuto a molti la narrazione di un centro Sicilia afflitto dalle piaghe di “sottosviluppo sociale e culturale; sfruttamento dei lavoratori e mancanza di dignitosa occupazione per i giovani; migrazione di interi nuclei familiari; usura; alcolismo e altre dipendenze; gioco d’azzardo; sfilacciamento dei legami familiari” di fronte a cui  “la comunità ecclesiale può apparire, a volte, spaesata e stanca; a volte invece, grazie a Dio, vivace e profetica”. Quel sottosviluppo sociale e culturale, soprattutto, è sembrato riduttivo della realtà culturale da sempre vantata come risorsa principale del territorio. È sembrata un po’ lesiva della dignità centro sicula la descrizione di una popolazione vittima delle dipendenze soprattutto da alcool e gioco d’azzardo! Ma del resto, come poi ha specificato meglio nell’omelia al Foro Italico, la Chiesa ha anche l’obbligo e il coraggio della denuncia oltre alla vicinanza e all’accompagnamento  di vittime e colpevoli nel difficile cammino della  presa di coscienza, del cambiamento di rotta e della conversione. Ma forse sono piaciuti meno a Bergoglio, e a chi attendeva nelle piazze e per le strade, quei venti minuti sotto il sole (ormai nel suo pieno fulgore e impietoso per gli occhi e sulla testa) passati  a stringere mani e ricevere baciamani dalla pletora di persone schierati in una fila che sembrava interminabile.

A Palermo, anche nei momenti di stanchezza dimostrata in modo icastico con lo stare seduto e con l’accenno alle caviglie doloranti, il Sommo Pontefice ha affidato i messaggi più universali; parlando al popolo palermitano e ai suoi drammi, che potrebbero sembrare peculiari della realtà siciliana, ha pronunciato parole utili a tutti i cristiani nei quattro angoli del mondo. Come non visualizzare quei giovani sdraiati, in poltrona, pensionati a ventanni, che pensano di parlare a Dio dal telefonino? A loro raccomanda “Perdere la faccia non è il dramma della vita. Il dramma della vita invece è non metterci la faccia! Meglio cavalcare i sogni belli con qualche figuraccia che diventare pensionati del quieto vivere – pancioni, lì, comodi –. Meglio buoni idealisti che pigri realisti: meglio essere Don Chisciotte che Sancho Panza!” .

E come dimenticare quell’immagine di “Don Pino che strappava dal disagio semplicemente facendo il prete con cuore di pastore”, unita alla denuncia del clericalismo, di una chiesa che si pone al di sopra del mondo, una delle “perversioni più difficili da togliere oggi”, del rischio della   burocratizzazione, del carrierismo, del familismo, della doppia morale, che si possono vincere con il ministero della testimonianza, ben interpretati dalla vita e dall’esempio di don Pino.

Come non sottolineare quell’appello ai mafiosi a convertirsi, altrettanto duro di quello che per la prima volta era stato pronunciato da Giovanni Paolo II ad Agrigento: «Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore. Oggi abbiamo bisogno di uomini e di donne di amore, non di uomini e donne di onore; di servizio, non di sopraffazione. Abbiamo bisogno di camminare insieme, non di rincorrere il potere. Se la litania mafiosa è: “Tu non sai chi sono io”, quella cristiana è: “Io ho bisogno di te”. Se la minaccia mafiosa è: “Tu me la pagherai”, la preghiera cristiana è: “Signore, aiutami ad amare”. Perciò ai mafiosi dico: cambiate, fratelli e sorelle! Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Tu sai, voi sapete, che “il sudario non ha tasche”. Voi non potrete portare niente con voi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle! Io dico a voi, mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».

Ed infine la tenerezza dimostrata invocando l’attenzione nei confronti degli anziani, dei vecchi, che aveva già esposto a Piazza “Per favore, non lasciate soli gli anziani! I nostri nonni. Loro sono la nostra identità, sono le nostre radici, e noi non vogliamo essere un popolo sradicato!”. Un appello che si coniuga con quello rivolto ai giovani, “albe di speranza”, di non abbandonare le proprie radici ma di coltivarle dicendo no al pessimismo, alla rassegnazione, alla logica dell’irredimibilità, allo sdradicamento e alla perdita della propria identità culturale: «Voi avete nel cuore e nelle mani la possibilità di far nascere e crescere speranza. Per essere albe di speranza bisogna alzarsi ogni mattina con cuore giovane, speranzoso, lottando per non sentirsi vecchi, per non cedere alla logica dell’irredimibile… Questa è una logica perversa, è il pessimismo, secondo cui non c’è salvezza per questa terra, tutto è finito. No! No al fatalismo, no al pessimismo, sì alla speranza, sì alla speranza cristiana… un giovane non può essere rassegnato. No alla rassegnazione! Tutto può cambiare… Prima ho parlato di giovani in poltrona, di giovani in pensione, di giovani quieti che non si mettono in cammino. Adesso ti domando: tu sei un giovane con radici, o sradicato? Abbiamo parlato di questa terra di tanta cultura: ma tu sei radicato nella cultura del tuo popolo? Tu sei radicato nei valori del tuo popolo, nei valori della tua famiglia? O sei un po’ per aria, un po’ senza radici – scusatemi la parola – un po’ “gassoso”, senza fondamenti, senza radici? “Ma, padre, dove posso trovare le radici?”. Nella vostra cultura: troverete tante radici! Nel dialogo con gli altri… Un poeta ci diceva: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”, dalle radici… In tempo di crisi dobbiamo sognare, dobbiamo metterci in cammino, dobbiamo servire gli altri, dobbiamo essere accoglienti, dobbiamo essere giovani di incontro, dobbiamo essere giovani con la speranza nelle mani, con il futuro nelle mani e dobbiamo essere giovani che prendono dalle radici la capacità di far fiorire speranza nel futuro. Mi raccomando, non siate sradicati, “gassosi”, perché senza radici non avrete appartenenza e non avrete identità».

Franca Ciantia

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