Oltre che confortare, consolare, riconciliare, il bello devasta e dilania. Per questo è così difficile che si riesca ad apprezzare, a riconoscere negli altri, ad abbandonarsi ad esso.
L’ integrità e l’ equilibrio interiore, sempre faticosissimi da raggiungere e mantenere, ne vengono facilmente offesi, messi in pericolo. Le ragioni sono tante. Prima tra tutte, credo, l’ inevitabile, spontaneo, automatico confronto con la nostra – di tutti – inadeguatezza rispetto ad esso.
Inoltre, la sua indeterminatezza, inequivocità, infinitudine. Che, ovviamente , confligge con i nostri opposti.
Inoltre, la paura dell’ assoluto che esso incute. In una situazione esistenziale e sociale in cui tutto, ma davvero tutto, è relativo, transeunte, opaco. E in cui siamo – sia pur obtorto collo! – assuefatti e accucciati, in posizione difensiva, quasi fetale!
La tensione, la contraddizione, lo scontro, tra il bello e il brutto, muovono il mondo. Spesso a sproposito e in modo scomposto, ma lo muovono. Quasi quanto il cambiamento tecnologico.
Partiamo da un dato inequivoco. Ciascuno di noi ha insita, innata, la tendenza alla ricerca del bello. Alla sua fruizione e alla sua espressione/creazione/riproduzione. Allo stesso tempo, però, queste ultime sono fortemente contrastate e inibite dalla persistenza del brutto.
Quest’ ultimo, di solito, condiziona e determina le quantità e le modalità in cui il bello trova (conquista) il suo diritto e la sua possibilità “di circolare e soggiornare liberamente” (Cost. italiana) all’ interno e all’ esterno di ciascuno di noi.
Questa conquista deve strappare al brutto gli spazi per potersi esprimere. Le ataviche tracce e dimensioni delle nostre fattezze sono infatti brutte. E non potrebbero essere altrimenti. Secoli, millenni di Storia le hanno modellate in tal senso. Nel senso delle guerre fratricide, delle ristrettezze economiche (quindi esistenziali), degli sforzi improbi per strappare alla terra il necessario, delle manifestazioni “matrigne” della natura sugli esseri umani. In sintesi, del “regno della necessità”.
Per cui non c’è da stupirsi se tutto ciò, e altro, ovviamente, su sia inscritto profondamente nell’ animo umano, modellandolo (e imbruttendolo…) .
Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare che, dall’ ‘ 800 (e anche prima, a livello teorico) in avanti, il movimento operaio ha fatto irruzione nella Storia, e con la sua “fiumana” di lotte per cambiare in meglio – e per tutti – l’ esistente sociale, ha posto le basi per far da argine al brutto; alle “brutture” del mondo.
Già … Perché gli argini al brutto costituiscono allo stesso tempo delle fessure dalle quali può avere accesso il bello.
Un incidente sul lavoro in meno, comporta un essere umano in più che mantiene la bellezza (uguale a quella di tutti noi, suoi consimili) della salute, dell’integrità psicofisica, dell’ autonomia lavorativa e sociale.
Un danno ambientale in meno equivale a una maggiore tutela della salute collettiva e individuale e a tante fruizioni in più di beni naturalistici e culturali non offesi.
Ogni bambino salvato dall’ ignominia della fame e della malnutrizione, riaccende la speranza nel futuro di una condizione umana più civile e vivibile.
Ogni donna sottratta alla violenza di genere, equivale a una fonte di vita (quindi di bellezza e di entusiasmo) in più.
Il movimento operaio non è stato da solo, a far da argine alle brutture del mondo. E a far da fessura accessibile rispetto al bello (dell’ esistenza e della società).
Ma, ironia della Storia, il “compagno di strada” che ha avuto, (e la cornice istituzionale entro cui si è espresso) è stato quello contro cui, fin dai suoi albori, ha aspramente combattuto: il capitalismo.
Certo, con i suoi – tutt’ altro che scontati o acquisiti una volta per tutte – corollari politico-ideali del liberalismo, della democrazia, dello Stato sociale, del cristianesimo, della “società aperta” (Popper).
Ma pur sempre di capitalismo si è trattato e si tratta.
Capitalismo che, nelle sue straordinarie capacità evolutive, innovative, adattive, ha recepito e assorbito parecchie delle istanze dei suoi oppositori. Dando vita, se non al bello, ad alcune delle sue sembianze e possibili concretizzazioni.
Con tutti i limiti e le contraddizioni che vogliamo, ma anche con i riscontri storici, statistici, comparativi (nel tempo e nello spazio) rispetto alle altre società e agli altri sistemi economico-politici. Che sono accessibili per testimoniarlo.
E che ci raccontano di una società capitalistica (liberal-social-democratica), che nella Storia è l’ unica che è riuscita ad assicurare a tutta la sua popolazione un accettabile livello di qualità della vita; e ad una consistente porzione di essa, un benessere diffuso e crescente. Caratterizzato anche da risorse aggiuntive
(economiche, di tempo, di sensibilità), che, tanto nel livello pubblico, quanto negli innumerevoli rivoli del privato, vengono impiegate nella solidarietà concreta verso gli ultimi, i più deboli, i diseredati.
Ovviamente, la realizzazione del bello è un processo, e non un risultato che si raggiunge una volta per tutte.
E, come tutti i processi, procede meglio se viene portato avanti non in solitudine, ma in compagnia di compagni di strada. E il movimento operaio ne ha acquisiti tantissimi. Negli ultimi decenni, essi sono nettamente aumentati di numero e raffinati per specializzazioni e qualità. Perfino parcellizzati e personalizzati in ogni singola individualità, cui prima non era dato di esprimersi.
Ma non tutti si sono rivelati adeguati. In particolare, quello su cui aveva più riposto le sue speranze e affidato i suoi “sogni”, il comunismo realizzato, se ne è rivelato ampiamente indegno (per usare un immeritato eufemismo).
Per cui sembra lecito chiedersi: con chi adesso?.. Con quali compagni di strada continuerà il suo cammino di realizzazione e diffusione del bello?
Sicuramente, non più con un’ utopia visionaria e totalitaria. Probabilmente, con un capitalismo riformato, temperato e umanizzato. Forse – ci piace pensare – anche con la dismissione della ricerca dell’ impossibile.
A favore dell’ intransigenza verso l’ intollerabile; dell’ acquiescenza verso l’ ineludibile; della tensione verso il ragionevolmente fattibile; della tolleranza verso l’ emendabile.
In fondo, il bello è un fine in sé. E, come tale, basta a se stesso. Anche, soprattutto, in piccole dosi.
Giovanni Rotolo