Quale Europa vogliamo?

Quale Europa vogliamo?
Le risposte a una mobilità umana incontrollata

Nelle prossime settimane (il 16 ottobre p.v.) si realizzerà a La Valletta il secondo momento (il primo si è svolto in maggio a Palermo e il terzo si terrà a Trapani nel p.v.) del dialogo transnazionale tra Italia e Malta: “Edics Malta-Sicily: Towards the European Election, European Citiziens, Let’s Talk”. L’evento è motivo per me di alcune riflessioni e tentare di dare risposte a domande che vengono poste da più parti: Come possiamo aiutare gli immigrati per evitare che il flusso migratorio sia incontrollato?
La domanda che ci si pone è: “Che tipo di Europa vogliamo?” Per facilitare le risposte sono state proposte alcune chiavi di lettura (migrazioni, difesa, rafforzamento della zona euro, coesione, agricoltura, ricerca, economia digitale, mobilità dei giovani, fondi europei vincolati) che saranno oggetto di discussione dei quattro gruppi: Investire di più sulle questioni globali (migrazione e difesa) o sulla solidarietà interna e sulla redistribuzione della ricchezza (fondi di coesione e agricoltura)? Investire di più nel rafforzamento dell’Eurozona o sulla mobilità dei giovani? Investire di più sulla solidarietà interna e sulla redistribuzione della ricchezza (fondi di coesione e agricoltura) o sulla competitività e sulle tecnologie più avanzate (ricerca e mercato unico digitale)? Condizionalità per i fondi UE: i fondi UE dovrebbero essere subordinati solo all’efficienza, all’efficacia e alla coerenza generale o anche a valori più ampi come democrazia, stato di diritto e diritti fondamentali?
Mi soffermo sul primo gruppo (migrazioni e difesa), ritenendo che le soluzioni a questo quesito siano prioritarie nell’epoca attuale per un’Europa che voglia essere coesa e interlocutoria a livello mondiale e non ricettacolo d’interessi nazionali.
Per quanto attiene all’emigrazione/immigrazione bisogna partire dal presupposto che ogni essere umano ha il diritto a spostarsi nel mondo, poiché la terra appartiene a lui (le divisioni dei territori, degli Stati, sono abusive e arbitrarie), e questo non solo per motivi economici ma per qualsiasi altra motivazione: culturale, religiosa, per scelta… Non possiamo proporre una discussione dal punto di vista solo poliziesco o di difesa, sia interna e sia estera, come se fosse un problema soltanto di sicurezza per la paura che si ha dello straniero: un rafforzamento delle frontiere esterne non è, a mio modesto avviso, condizione preliminare per l’abolizione delle frontiere interne.
Proporrei due canali d’azione: uno a intra e uno a extra. All’interno, attraverso una riorganizzazione reale tra gli Stati sia dal punto di vista economico, gestendo in modo razionale ed equo lo ‘squilibrio territoriale’, ma anche negli ambiti culturali, di coesione, di economia (pure digitale), di mobilità dei giovani, di rispetto dei diritti umani e soprattutto d’accoglienza. Il trend demografico tra nascite e morti, entrate e uscite, sia rivisto in una dinamica produttiva e di riorganizzazione territoriale, di economia agricola e marinaresca (anche rilanciando questi settori come fonte di guadagno).
All’esterno: una condivisione e un’equa ridistribuzione delle risorse del pianeta. Questa dovrebbe avvenire attraverso la cooperazione internazionale, lo sviluppo dei paesi più poveri, la lotta alla produzione delle armi, l’abolizione dello sfruttamento dei beni che appartengono ai singoli popoli…
A questo proposito l’UE dovrebbe riprendere la Convenzione di Lomé, giunta alla sua nona edizione (Youndé 1963- Cotonou 2010), firmata con i Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) (riguarda 79 paesi tra cui 48 dell’Africa subsahariana), ed elevare il tenore di vita dei Paesi sottosviluppati, eliminando gli squilibri strutturali esistenti. Occorre un maggior controllo da parte dell’UE, dimostratasi incapace a gestire i fondi europei destinati a questi Paesi (controllando che questi fondi non vadano a finire in mano ad attività criminali o a grossi imprenditori per evitare il fallimento delle loro aziende), favorendo la nascita di attività produttive, in cui la popolazione ne è coinvolta. La dimensione politica deve controllare, quindi, la cooperazione allo sviluppo e quella economica e commerciale (Accordo di Cotonou).
Alcune soluzioni mi sembrano prioritarie in un contesto mondiale e territoriale.
Occorre un corretto utilizzo del cibo. Secondo la FAO 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti, equivalenti a 550 miliardi di euro, viene sprecato ogni anno: potrebbero essere sfamate 900 milioni di persone che sono denutrite.
Incombe la riappropriazione dei terreni abbandonati da utilizzare per la produzione di generi di prima necessità e non per la produzione di biocombustibile (oggi al 7 per cento): la terra deve ritornare ad avere la sua funzione di nutrice del genere umano.
In riferimento ai flussi umani ribadisco che emigrare è un diritto sacrosanto di ogni uomo. Per evitare i movimenti come “fiumi in piena”, oltre a quanto detto sopra, presterei molta attenzione nelle zone di partenza (attraverso la preparazione, culturale e organizzativa, all’emigrazione stessa, come la nascita di agenzie per l’emigrazione, corsi di alfabetizzazione e di attività necessarie nei paesi di prossima immigrazione…) e ai percorsi intermedi degli immigrati, favorendo l’accompagnamento e il controllo in itinere (sia come lavoro e sia come centri di accoglienza temporanei), oltre, naturalmente, a un’assistenza adeguata nelle zone di arrivo.
In tutto questo aggiungerei la preparazione culturale all’accoglienza sia di chi accoglie e sia di chi è accolto, perché nessuno sia egemone nei confronti del proprio simile, ma ognuno sia accompagnatore intelligente e interlocutore fidato: la ricchezza apportata e trasmessa sia visibile da una conoscenza oggettiva e mai stereotipata.


Salvatore Agueci

 

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