4 Luglio 1776, dichiarazione di indipendenza americana. Le 13 colonie, dopo strenue lotte politiche e anche militari, dopo le proteste “morali” del gettare il te in mare, del “no taxation without representation”, i gravissimi spari di Lexington, avevano deciso di rompere definitivamente con la madre patria inglese. La visione di Thomas Paine sul fatto che fosse assurdo che un continente fosse governato da un’isola aveva raggiunto il suo apogeo. Ma per arrivare al riconoscimento dell’indipendenza delle colonie da parte della madre patria si dovettero attendere altri sette anni di guerre e morti, fino al 1783 con la conferenza di Versailles e il trattato di Parigi. Nel 1789 viene eletto il primo presidente degli Stati Uniti d’America, ovvero il generale George Washington, distintosi nelle guerre condotte prima dalla madre patria contro la Francia e poi durante la guerra di Indipendenza.
Accettò malvolentieri il secondo mandato, ma rifiutò categoricamente il terzo, dando vita ad una consuetudini che tutti i suoi successori, tranne Franklin Delano Roosevelt (e proprio per evitare altri episodi venne legiferato in tal senso), misero in campo. Morendo lasciò un testamento morale in cui invitava caldamente i suoi concittadini a non interessarsi di ciò che avveniva nel vecchio continente, dando il via a quell’atteggiamento isolazionista che attuò l’America per tutto l’ ‘800. Lo stato Americano, federale e basato su leggi che garantiscono pesi e contrappesi, con controlli incrociati tra gli organi, è sicuramente nell’immaginario collettivo lo Stato per eccellenza. La stato in cui tutto è possibile e proprio perché tutto è possibile, questo Stato è composto da una moltitudine di immigrati, tra cui molti italiani. L’America, nella sua breve storia, ha un curriculum degno di tutti gli altri stati. Ha le mani insanguinate da un genocidio (i nativi americani) e di una feroce guerra civile all’inizio della seconda metà dell’ ‘800. Ha visto morire alcuni propri presidenti, Lincoln, Garfield, McKinley e Kennedy, per mano di altri. Già, i presidenti: quei 45 uomini che nell’arco di più di 200 anni hanno lasciato nel bene e nel male la loro impronta. Quegli uomini che, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono diventati praticamente le persone più importanti della Terra. Ma già dalla Prima Guerra Mondiale, e quindi il primo intervento americano negli affari europei con le truppe guidate dal generale Pershing, ciò che dicevano gli Americani “contava qualcosa” (non dimentichiamo i celeberrimi punti del Presidente Wilson). Ma poi l’America è stata anche il centro della grande depressione del 1929, crisi che si espanse in Europa e fu spinta della Seconda Guerra Mondiale perché quell’impoverimento mondiale diede manforte ai totalitarismi, in maniere preminente al Nazionalsocialismo di Hitler. Poi, come abbiamo detto, la Seconda Guerra Mondiale e da quel 1945 il mondo non era più europacentrico, ma l’asse si era spostato verso le due superpotenze: America e Urss. La guerra fredda che contrappose questi due stati praticamente su tutto, dallo spazio agli scacchi, ma che fu vinta dagli Americani in un certo qual modo. L’America delle grandi proteste, delle riscosse razziali di Martin Luther King, delle famiglie maledette quali i Kennedy, del “curtigghiu” sui tradimenti presidenziali, sulla mafia, l’anarchia, la musica e la ribellione. L’America dei grandi misfatti, della corruzione e del Watergate in cui Nixon, unico presidente a farlo, dovette dimettersi. L’America del rilancio economico con Ronald Reagan, dei muri abbattuti con Bush, di nuovo dei tradimenti presidenziali con Clinton. L’America ferita. O meglio il mondo ferito. Perché quell’11 settembre fu un attacco a tutto l’Occidente. L’America del primo presidente nero e l’America di oggi, quella di Trump, che non è assolutamente in rottura col passato. Ma rappresenta fisicamente le contraddizioni, i vizi, i sogni sfrenati, l’utilitarismo, la modernità e la frenesia che hanno reso grande questo Stato che nacque poco più di 200 anni fa.
Alain Calò
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