Tra i tanti totalitarismi che (indegnamente) popolano il mondo, sembra essercene uno che ha una curiosa caratteristica: ha un nome quasi impronunciabile (dai suoi sostenitori e costruttori).
Il nome è quello del comunismo. La caratteristica “affligge” soltanto i suoi simpatizzanti (e non i suoi oppositori, i quali, al contrario, utilizzano questo nome a piene mani e spesso a sproposito). La realtà che ne è sottesa è quella dei sistemi economico-sociali ad economia pianificata e a società assoggettata allo Stato esistiti (o esistenti?) nel secolo scorso in Unione Sovietica, Europa orientale, Cina, Cuba, Sud-Est asiatico, etc.
A dispetto di questa caratteristica, che potrebbe suggerire l’ immagine di una entità leggiadra, misteriosa, mitica, mistica, si tratta di una realtà politico-sociale estremamente concreta e pesante; che ha finora causato, accertano gli storici, più di 80 milioni di morti e sofferenze atroci.
In che senso crediamo sia quasi impronunciabile il nome “comunismo”?
Ci riferiamo, ovviamente, al dopo – Marx e al dopo – Lenin. I quali fecero anzi, come è noto, di questo termine, una bandiera e un connotato distintivo delle loro elaborazioni teoriche e del loro impegno politico. E’ possibile individuare questi “dopo” in almeno tre abitudini linguistiche-comunicative.
1) Quella dei teorici socialisti successivi ai padri fondatori del marxismo-leninismo;
2) Quella dei governi dei sistemi comunisti realizzati nei paesi e nelle aree del mondo succitati/e;
3) Quella dei partiti (sedicenti) “comunisti” dell’ Europa occidentale che non sono mai andati al governo nei loro paesi.
I primi preferirono fin da subito definirsi socialisti o socialdemocratici (Kautzky, Bernstein, Turati …). I secondi preferirono connotare i loro sistemi politico-economici come socialisti (sia pure in procinto e nel processo di costruzione della società comunista di marxiana memoria). I terzi attuarono una curiosa dissociazione tra “nomen” e “omen”, scegliendo di chiamarsi (e continuarsi a chiamare) “comunisti” (P.C.I., P.C.F., P.C.E.), ma preferendo definire le proprie politiche concrete quali “socialiste” e le proprie prospettive di lotta quali volte alla “costruzione del socialismo”.
A dire il vero, la tendenza, di questi ultimi, al “pluralismo” espressivo, fu (ancorchè contraddittoria) tanto efficace da riuscire a permeare il sentire comune (anche quello non necessariamente di sinistra); al punto che esso venne a definire “socialismo reale” quello esistente presso i succitati paesi governati dai partiti comunisti (quelli si, reali); e “socialiste” le società in questione.
Ma il comune sentire non è statico. Si evolve, presenta il conto, “dà torto e dà ragione”. Giacchè, col passare dei decenni, ha finito per capovolgere la frittata: la parola “impronunciabile” è diventata super-pronunciata (e non certo benevolmente). La descrizione sintetica, in una parola, “comunismo”, della realtà, terrificante, distruttiva e auto-distruttiva, dei paesi del comunismo reale (chiamiamo pure le cose col loro nome), ha prevalso sulle sue edulcorazioni. E si è estesa a dismisura, fino a tentare – spesso riuscendovi – di infangare e denigrare tante realizzazioni e manifestazioni concrete della socialdemocrazia, del Welfare State, della stessa solidarietà sociale.
Fino a identificare e assimilare quasi ogni iniziativa solidaristica, benefica, finanche caritatevole, con le intenzioni e il destino (sia pure involontario) delle società del comunismo realizzato (un destino invero triste, cupo, disastroso).
Fino a travolgere, a livello culturale, fattuale e anche elettorale, quasi ogni tensione e tentativo che volesse dirsi socialista, riformista, o di sinistra.
Perciò, ci chiediamo umilmente, se rinunciare a questa parola alcuni decenni addietro (anche rispetto al 1989), non sarebbe stato più lungimirante e benefico per le sorti della liberal-democrazia, della giustizia sociale, del consesso civile.
L’ etimologia stessa del termine lo avrebbe agevolmente suggerito. In fondo, gli esseri umani sono – possono essere – molto più facilmente e in modo indolore “soci” che non “comuni”, “comunardi”, “comunisti” (quest’ ultima connotazione lasciamola ai “comunisti-condòmini” dei condomìni abitativi, e al codice civile italiano). E possono esserlo in quanto hanno la tendenza connaturata ad “associarsi liberamente tra loro” ( Cost. italiana, art. 18); a stabilire tra loro legami (non vincoli) di cooperazione, affetto, amore…; a rafforzare, indebolire, modificare questi legami; a recedere da essi. E, di “comune”, non hanno proprio nulla. Sono – siamo – tutti, e ciascuno di essi – di noi – degli assoluti e unici miracoli.
Giovanni Rotolo