Cancellate nella memoria storica, le pandemie ritornano a colpirci con il covis-19 dopo un secolo

Del coronavirus desease-19 (covid-19), sappiamo poco. Sappiamo solo che si diffonde velocemente e si tramette attraverso le goccioline respiratorie di saliva e starnuti (droplet). Poiché il covid-19 è un virus nuovo, non abbiamo ancora vaccini e farmaci con i quali combatterlo. Disponiamo di laboratori per la diagnosi e per il contenimento molto raffinate, ma le armi che abbiamo a disposizione non sono molto diverse da quelle utilizzate per combattere la peste che dal 1835 al 1911 flagellò l’Italia sette volte mietendo decine e decine di migliaia di vittime: 236.473 in quella degli anni 1835-1837, 17.1211 negli anni 1848-1849, 248.514 negli anni 1854-1856 (nella sola Sassari, la città più colpita, ne morirono 5.000 su 23.000 abitanti), 160.147 negli anni 1865-1867, 33.875 negli anni 1884-1887, 4.270 nel 1893 e 6.950 negli anni 1910-1911. Per evitare eventuali contagi, chi era sospettato di essere appestato veniva isolato per 40 giorni. Per il sospettato di contagio da covsid-19, occorrono 14 giorni di isolamento. La logica è la stessa. L’altro riferimento, sotto il profilo della sanità pubblica, è l’epidemia della spagnola del 1918, provocata da un virus influenzale, che non è il coronavirus ma ha le stesse caratteristiche di trasmissione del coronavirus. Della spagnola, che fece in Europa 50 milioni di vittime, si cerca ancora il paziente zero. Non è una battuta, è vero! I nostri nonni e bisnonni vivevano nell’800 e fino all’inizio del ‘900 all’insegna della catastrofe epidemica. Non ne parlavano volentieri, come se volessero mettere al riparo i loro nipoti dal conoscere esperienze terribili da loro vissute, o forse sarebbe meglio dire dalle quali erano sopravvissuti. Ma quando avevano a che fare con dei nipoti curiosi che gli chiedevano con insistenza di raccontare qualcosa della loro vita, allora si aprivano e cominciavano a parlare anche della peste e della spagnola augurando ai nipoti di non vivere mai simili esperienze. Erano pochi quei nipoti curiosi. Ero uno di questi. E raccontarmele era mia nonna materna Lucia, nata nel 1883 e scomparsa nel 1979. Un sopravvissuta a tre epidemie e a due guerre mondiali. Alle generazioni venute dopo gli anni ’20 del secolo scorso quest’esperienza terribile delle epidemie è stata risparmiata. Quella nate dagli anni ’20 agli anni ’40 hanno vissuto la tragica esperienza della guerra, ma di epidemie di colera e di influenza come quella del 1918 non ne hanno patite. Le epidemie non rientravano nell’orizzonte delle aspettative di queste generazioni. A distanza di un secolo dall’ultima epidemia, è come se la memoria storica di quelle epidemie fosse cancellata. Veniamo presi da angoscia e paura ritrovarci all’improvviso di fronte alla pandemia del covis-19, che nessuno si aspettava anche perché, tranne poche persone, abbiamo perso la memoria delle epidemie di tanto tempo fa vissute dai nostri più vicini antenati. Paura ed angoscia che sono esaltate dalla consapevolezza che non conosciamo questo virus, non abbiamo né farmaci né vaccini per combatterlo. A deprimerci si aggiunge la consapevolezza che il nostro servizio sanitario nazionale potrebbe non farcela, se non si adottano e si attuano con rigore misure durissime per fermare quest’epidemia da covis-19. Misure che ci obbligano a cambiare le nostre abitudini e i nostri modelli di comportamento, a pensarci non più come persone singole che badano solo al proprio interesse individuale a danno degli altri ma come appartenenti ad una comunità nella quale viviamo bene se gli altri vivono bene. Dopo questa triste esperienza, non saremo più gli stessi.

Silvano Privitera

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