Il coronavirus e la pandemia della spagnola della quale abbiamo dimenticato la lezione

“Autoritratto dopo la febbre della spagnola 1919-1920” è il titolo del quadro del pittore norvegese Edvard Munch sopravvissuto alla pandemia influenzale della spagnola, che flagellò l’Europa e il mondo intero alla fine della Prima guerra mondiale. Abbiamo pensato a questo autoritratto di Munch per corredare l’articolo sulla pandemia del coronavirus che state iniziando a leggere. Gli storici hanno calcolato in 50 milioni le vittime di questa pandemia in tutto il mondo. Solo in Italia se ne contarono 600 mila nelle tre ondate che l’investirono: nella primavera e nell’autunno del 1918 e nella primavera del 1919. In televisione, alla radio e sui giornali, quando epidemiologi, medici e virologi sono chiamati a parlare della pandemia del coronavirus, che dall’inizio di quest’anno sta investendo l’Italia e gran parte del resto del mondo, sentiamo spesso richiamare la pandemia della spagnola di 100 anni fa di cui si era persa la memoria. Di libri di storia che parlano della spagnola ne sono stati scritti parecchi. Tra questi ce n’è uno che merita di essere letto perché è di buona scrittura e molto ben documentato. E’ il libro dal titolo “La spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-1919)” di Eugenia Tognotti, docente di Storia della medicina all’Università di Sassari, pubblicato per i titoli della Franco Angeli alcuni anni. E’ molto probabile che molti studenti di medicina l’abbiano letto perché dal 1996 l’ordinamento degli studi della facoltà di medicina e chirurgia prevede l’attivazione dell’insegnamento della storia della medicina. La storia delle grandi epidemie, e quella della spagnola è una di queste la più drammatica, rappresentata un capitolo importante della storia per gli effetti sociali ed economici che le epidemie provocano. Conoscerle, soprattutto da parte di chi ha responsabilità di occuparsi della salute pubblica, è importante al fine di anticipare e controllare eventuali e nuove epidemie con caratteristiche analoghe. Studiarle non è un esercizio accademico, se aiuta a capire ciò che potrebbe accadere. Questa del coronavirus di oggi presenta sorprendenti analogie con quella della spagnola di un secolo fa. Il virus della spagnola era completamente nuovo per la popolazione, che non aveva alcuna difesa nei suoi confronti. Entrava nell’organismo per via area e andava ad attaccare la mucosa del tratto respiratorio superiore fino a raggiungere i polmoni. Si trasmetteva attraverso tosse e starnuti. Si manifestava con i sintomi banali del raffreddore come la febbre e tosse secca, ma subito dopo provocava polmoniti mortali. E non c’erano vaccini e medicine per contrastarlo. Mancavano medici e infermieri per curare e tentare di strappare alla morte i contagiati. Per contenerne la diffusione, gli strumenti a disposizioni erano quelli che oggi chiamiamo “distanziamento sociale”. Le visite agli ammalati erano proibite. Sconsigliato mettersi in viaggio. Fiere e mercati sospesi. Chiusura anticipata di ristoranti e teatri. Funerali senza croci, preti, fiori e parenti. Vietati i cortei. Niente cerimonie di addio. Bare trasportate su autocarri. Anche noi oggi abbiamo a che fare con il coronavirus che non conoscevamo, nei confronti del quale non abbiamo ancora vaccini e medicine che ci difendano, le uniche armi che abbiamo quelle di stare a casa, evitare assembramenti, non viaggiare. Vediamo trasportare bare sui camion militari. Dunque, fatte le dovute differenze, oggi è come allora. A scuola ci dicevano che lo studio della storia è importante perché – parola di Cicerone – “la storia è maestra di vita”. Ma a vedere quello che stiamo vivendo oggi, c’è da dire che non abbiamo prestato ascolto alla maestra.

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