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Enna il torrente Torcicoda svela ricoveri e mulini

E’ come l’ esperienza di un viaggio nel ventre della madre-terra, tra grotte e corsi d’ acqua che hanno scavato solchi profondi. Scendere tra le gole del torrente Torcicoda, tra Enna e il lago-mito di Pergusa, equivale a un viaggio a ritroso nel tempo, quando i lavori agricoli si facevano con la vanga e l’ aiuto di un docile mulo; un luogo in cui le abitazioni erano riparate sotto la roccia.

Oggi è la stessa immagine che si presentò tre secoli fa al viaggiatore olandese Jean Phlippe d’ Orville quando giunse nei pressi del vallone Pisciotto di Enna, lungo il Torcicoda: rimase impressionato dalla grande quantità di grotte che si aprivano in sequenza lungo le pendici rocciose: «Ci siamo avventurati sugli orli dei precipizi, penetrando entro grotte sovrapposte o contigue, scavate nell’ alta rupe rocciosa: diverse di queste sono abitate, le chiamano le grotte dei Greci~». I Greci cui si riferiva il d’ Orville non erano quelli della tradizione classica bensì i bizantini, rimasti famosi per gli aspetti sotterranei della loro civiltà e i numerosi santuari in grotta (le “Laure”). La coincidenza ha voluto però che un gruppo di archeologi in cerca di tracce greco-ellenistiche abbia scoperto nella profonda vallata del Torcicoda un insediamento autoctono che sembra riportarci ai cliff-dwellings del Colorado ovvero ai ripari sotto roccia che nascondono interi villaggi. La “Mesa Verde” dell’ ennese si chiama “Riparo di contrada San Tommaso” e l’ hanno scoperta poco tempo fa, dal punto di vista archeologico, un gruppo di studiosi del Centro di Archeologia Mediterranea, diretto da Enrico Giannitrapani. Le tracce in superficie hanno riportato l’ intera sequenza abitativa dal secolo scorso fino al medioevo, quando il villaggio, costituito da gruppi di case disposte frontalmente, separate dal corso d’ acqua, era prevalentemente occupato da agricoltori che curavano i terreni a valle del torrente e soprattutto erano guardiani del complesso sistema di canalette, mulini e serbatoi necessari come riserva d’ acqua. Lo scavo archeologico ha individuato vari livelli stratigrafici, d’ epoca arabo-bizatina, romana, ellenistica, fino alla preistoria su cui l’ équipe intendeva approfondire le proprie conoscenze. «Il riparo è stato individuato nell’ ambito del progetto Archeologia nella valle del Torcicoda, progetto condotto e realizzato da Mark Pluciennik dell’ Università di Leicester – ci spiega Giannitrapani – una felice sinergia tra istituti culturali italiani e britannici che ha già prodotto importanti risultati in altri siti archeologici della Sicilia. C’ è molto interesse isolane da parte degli istituti universitari esteri a valorizzare le aree archeologiche ma attualmente non c’ è nessuna normativa o progetto che favorisca queste sinergie nella gestione dei beni culturali». L’ équipe di scavo ha scoperto altri ripari tra le pietre arenarie permeabili del Torcicoda. Sotto questi “ripari-canyon” si sono conservati alcuni edifici in uso fino agli anni Sessanta del secolo scorso, tra cui il “Mulino nuovo”, risalente alla metà dell’ Ottocento. Questa struttura rudimentale fa parte di un sistema complesso di canali di adduzione d’ acqua e di mulini (circa venti), presenti lungo il corso del torrente, che costituivano la ricchezza tecnologica delle popolazioni prevalentemente dedite alla pastorizia e ai lavori agricoli. Tra gli altri complessi ricordiamo il “Mulino dell’ agnello” (1873) dove esiste ancora la “botte”, i mulini “Paradiso” e “Immacolata”, con canali di adduzione e vani di molitura, il mulino “Valata”, con annessi ambienti per il ricovero degli animali in attesa della molitura, e infine il mulino “Marcatobianco”, il più lontano, posto alla confluenza del Torcicoda con l’ Imera, imponente per gli archi dei corpi di fabbrica. Un censimento di questi mulini è stato realizzato nel 2002 dal Servizio Etnoantropologico della Soprintendenza di Enna, quest’ ultima pure impegnata nel coordinamento degli scavi archeologici al riparo “San Tommaso”: in effetti nella parte più protetta del complesso è stato individuato, accanto ai resti di abitazioni sotto roccia, un ricco deposito di materiali che copre tutta l’ età del Bronzo e del Ferro (inizio II millennio fino ai primi secoli del I millennio a. C.), contribuendo a svelare importanti asperrri dei modi di vivere di queste misteriose popolazioni che abitavano nei villaggi sotto roccia. Giannitrapani, tutt’ ora impegnato in altri scavi a Pietraperzia e Calascibetta, località interessate da analoghi ripari sotto roccia (ci sono almeno trenta aree di rinvenimenti archeologici), tiene stages sul campo agli studenti dell’ Università Kore, ed è anche per merito suo se la conoscenza di queste dimore è uscita definitivamente dalla sfera delle superstizioni (grotte dei fantasmi, degli incantesimi ecc.) e dei luoghi comuni, per diventare materia di indagine scientifica. «Le ampie grotte e i ripari che si aprono sulla vallata, similmente alla “cave” degli Iblei e alle “gravine” pugliesi – ci spiega il geologo Salvatore Scalisi della Soprintendenza-sono legate alla disposizione tabulare dei terreni. L’ enorme banco di tufi calcarei che si propaga dal monte di Enna, formandovi una cresta dirupata dai profili caratteristici, è stato profondamente inciso dall’ azione corrosiva delle acque». Di ciò ne sono convinti tutti coloro che fin dai tempi di d’ Orville e Vuillier, hanno tentato di dare una lettura antropologica alle oltre quattrocento cavità sparse lungo la vallata del Torcicoda. Quando nel XVIII secolo il canonico Massa vide quelle grotte abitate pensò che esse in precedenza fossero state dimora delle ninfe Eree (La Sicilia in Prospettiva,1709). Altri studiosi come il Littara, l’ Alessi, il Falautano e il Vetri, vi hanno intravisto i resti di una grande necropoli preistorica appartenente a un popolo che praticava il matriarcato e osservava le costellazioni stellari per stabilire il proprio calendario agro-pastorale. Ma almeno Cerere, tra le divinità, alle sorgenti del Torcicoda vi andava e sostava prima di riprendere la ricerca della “rapita” figlia Proserpina. Il Mongitore, ne “La Sicilia ricercata”, sorpreso dal corteo paganeggiante che ogni anno gli ennesi tributavano alla patrona auspice del buon raccolto, – segnalava la grotta di “Cerere Arsa”, sotto la chiesa di Valverde, – dove l’ ultima effige pagana era stata nascosta in una profonda grotta. Miti e luoghi curiosi sono andati sempre a braccetto e il fatto che quelle grotte fossero talvolta considerate “burgi”, ripari agricoli, o “case di santi”, romitaggi, poco importava agli ennesi i quali facevano spallucce del pregiudizio del “troglodismo”. Taluni viaggiatori, a partire dal Fazello, avevano segnato queste cavità col marchio delle dimore trogloditiche, pregiudizio duro a morire se ancora nel 1924 B. Rubbino si esprimeva per le cavità del Torcicoda negli stessi termini dell’ indagine di Franchetti e Sonnino. «Almeno sei buoni motivi-scrive Renè Guenon, il maggiore studioso della sacralità delle grotte – possono convincere gli uomini a utilizzarle diversamente dagli scopi abitativi». Ed ecco le grotte ennesi utilizzate soprattutto come attività produttiva, come luogo di essicazione di sostanze vegetali, come ricovero per animali, come frantoio o palmento, come semplice magazzino, come luogo estrattivo, come sede di una bottega artigianale (basta dare uno sguardo alle attività segnalate nel borgo rupestre di Sperlinga). O addirittura come bottega dello “speziale” o cappella votiva (il caso della grotta dei santi, posta sotto la Rocca di Demetra a Enna). Alcune di queste grotte, quelle del “Pisciotto”, vicino l’ antico quartiere ebraico, sono state acquistate dal Comune, destinandole a luogo di esposizione della cultura materiale. Altre sono oggetto di culto come quelle di “Papardura”. Altre ancora sono state oggetto di scavo archeologico fin dai tempi di Paolo Orsi che qui era di casa. Anni addietro la cooperativa “Demetra” di Enna, diretta da Aldo Alvano, e la Soprintendenza sotto la guida di Carmelo Nicolosi, svolsero una catalogazione piuttosto esaustiva, con rilievi e schede, su queste grotte, segnalandone alcune spettacolari, come quella di “Cannataro”, a più ambienti rialzati, quella dello “Spirito Santo”, costituita da grossi blocchi di pietra, la stessa di via Cerere Arsa, quella sotto il viadotto San Leone, a ridosso del muro che un tempo delimitava l’ ingresso nella “polis”, e infine la grotta dei “Saraceni” immortalata nelle foto, oggi cult, della famiglia De Angelis di Catania, cui è stato dedicato un opuscolo nel 2002.

Claudio Paterna


già pubblicato su “La Repubblica” del 10/02/2009

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