Arrivò u pisci friscu! A piscarì, a chiazza” (è arrivato il pesce fresco alla pescheria del mercato S. Antonio), oppure: “si vìnni a carni di bbassu macellu a Santumasi” (la carne in vendita – quasi a metà prezzo – nella macelleria comunale di Piazza S. Tommaso, proveniente da animali abbattuti per infortunio o vecchiaia).
Così “vanniava” – tutti i venerdì per il pesce e una o due volte al mese per la carne di basso macello – un tipico personaggio ennese, “u vanniaturi” (banditore di mercanzie), per le strade, le piazze e i vicoli di Enna, seguito da un nugolo di ragazzi che gli facevano il verso. Poche erano le persone che si dedicavano al mestiere dei “vanniatura” dato che era necessaria, quale dote naturale, una possente e altisonante voce.
Le loro prestazioni erano rivolte soprattutto a “reclamizzare” quei prodotti alimentari che i “putijara” (i bottegai) dovevano smerciare in giornata o al massimo il giorno seguente, in mancanza di celle frigorifere. Non si limitavano però a “pubblicizzare” soltanto generi di largo consumo, succedeva anche che prestavano la loro opera per circostanze o avvenimenti diversi, quali per esempio la scomparsa di una bambina.
Così accadde che “u vanniaturi”, dietro lauto compenso, gridando a squarciagola per tutto il paese: “sa pirsu na carusa di cinc’anni di nomi Marì, cu a trova a porta o colleggiu di Marì”, nel giro di poche ore risolse il “caso”. Il fatto, realmente accaduto nella tarda primavera del 1945, si concluse a lieto fine per la gioia dei genitori e dei familiari.
Questa era Enna fino agli anni cinquanta, quando ancora esistevano tali personaggi poi scomparsi, inghiottiti dai “tempi moderni”.
Non erano solo i “vanniatura” a strillare in lungo e in largo per la città. Molte erano le persone che per le strade del centro o della periferia si dedicavano alle più svariate attività che oggi potremmo definire: “arti e mestieri di strada”.
Spesso, nel loro quotidiano giro di vendite, erano accompagnati da ragazzini “apprendisti” che, per qualche lira da portare a casa, trascuravano l’obbligo scolastico.
Con lo slogan “si molano forbici e coltelli” percorreva le strade una delle figure più caratteristiche di quel tempo, l’arrotino. La sua grossa bicicletta a doppio sellino era dotata di due pietre molari circolari (una più grande, l’altra più piccola) poste sopra la ruota posteriore.
Una volta sistemata su un robusto cavalletto, l’arrotino – seduto con le spalle al manubrio – faceva rotare le pietre spingendo sui pedali. Al suo passaggio macellai, barbieri, sarti e massaie si precipitavano in strada per fruire dei suoi servizi.
Vi erano poi: “u siggiaru” dedito a rifare la trama, con uno speciale e robusto spago, al sedile delle vecchie sedie in legno, oggi appannaggio dei negozi di antiquariato; “u paraccaru” (l’ombrellaio) che andava alla ricerca d’ombrelli d’aggiustare, sostituendo manici e stecche. Le prestazioni di entrambi venivano eseguite a domicilio.
“U stagninu”, invece, si limitava a riattaccare qualche manico di pentola o di padella in alluminio, portando nella sua bottega-laboratorio tutto ciò che non poteva essere riparato sull’uscio di casa. Così lumi, imbuti, pentole, padelle e casseruole ritornavano al quotidiano uso. Quando poi gli oggetti di alluminio, ghisa, rame e ferro diventavano inservibili, venivano conservati per essere venduti al raccoglitore di ferro vecchio che, di tanto in tanto, veniva da Catania. Al grido di “cu avi firruvicchiu” “u catanisi” comprava di tutto.
Un non meglio identificato “Cosimu” barattava le “trecce” di capelli, tagliate dalle mamme alle loro figlie, con aghi, spagnolette, merletti e qualche “pupata di cuttuni” (matassa di cotone).
Periodicamente passava di casa in casa, per riparare oggetti in rame, don Cicciu Urso “u quadararu”, originario di Palermo, caratteristica figura di maestro artigiano i cui figli e nipoti oggi sono noti commercianti di oggetti d’antiquariato, con negozi a Enna e Cefalù. Solo il più piccolo dei figli, Giuseppe, esercita ancora l’attività artigianale, tramandatagli dal padre. Gli utensili in rame, da lui creati e realizzati, sono tuttora lavorati manualmente con antiche tecniche e attrezzature d’epoca.
In estate il rivenditore di ghiaccio girava col suo carretto, trainato da un mulo o da un asino. Il prodotto, venduto a peso, veniva prelevato dalla fabbrica di ghiaccio del “Canalicchiu” (quartiere sito nei pressi della vecchia centrale elettrica) o di Via Torre di Federico. I macellai, i pescivendoli e i gestori di caffè, bar e ristoranti lo acquistavano direttamente in fabbrica, all’ingrosso.
In autunno, invece, i venditori di “gginisi e carbunella” rifornivano le famiglie di questi preziosi prodotti che servivano da combustibile per “scarfatura” (scaldini) e “conchi” (bracieri in rame con manici), a quei tempi i soli mezzi di riscaldamento nelle case degli ennesi. Il più noto ed ultimo “gginisaru” è stato il signor Tamburella.
La terraglia rotta (piatti, pentole, tegami, ecc.) veniva riparata a domicilio da valenti artigiani con il gesso, usato come collante, e con “u firrufilatu” (fil di ferro) necessario per la legatura dei cocci rotti.
Il signor Pietro Basile, da tutti conosciuto “u campubbassisi”, percorreva le strade del paese con il suo grosso triciclo trasformato in una ben assortita merceria, dove le donne trovavano tutto il necessario per il cucito.
Con la “bbardinella” (grande fagotto contenitore di merce portata a spalla) i fratelli Bevanda, il signor Cesare Sgrò ed altri vendevano a domicilio tessuti, foderami e telerie nei quartieri del centro e della periferia.
Erano altri tempi questi, quando tutto veniva confezionato a casa e quando ci si disperava un giorno intero per un piatto o per un “bbummulu” che si rompeva.
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