Ci sono voluti anni di misurazioni, rilievi fotografici, visure catastali, analisi sul regime dei suoli e delle acque per definire i confini e le proprietà da vincolare, per quella che può essere definita “la vallata delle fornaci in gesso”, la più grande del mezzogiorno (circa 40 ettari). In effetti le sagome dei quattordici grandi forni per la cottura del gesso, localizzati nella stretta valle del torrente Marano, a tre chilometri dal centro abitato di Pietraperzia, si presentano all’occhio profano come altrettante architetture nuragiche che destano sensazioni insolite in questa parte dell’isola. Con più attenzione si scorge la fisionomia di costruzioni assai fragili, ecinti semicircolari costituiti da blocchi squadrati di pietra-gesso, addossati a casupole prive di copertura che tuttavia segnano visibilmente il territorio brullo e scosceso. Nella Sicilia dell’altopiano solfifero le superstiti struttre delle “carcare” di Pietraperzia sono oggi un unicum di archeologia industriale dell’estinta civiltà mineraria: le fornaci in pietrame a secco fornivano la materia prima per la costruzione e la decorazione delle abitazioni o per la produzione di calce idraulica.
A Pietraperzia anche l’imponente castello dei Barresi era costruito in solidi blocchi di gesso, per non parlare della casa del Governatore e delle vicine strutture delle zolfare di Montecane, Musalà e Canneto. Numerosi carrettieri – “issara” – partivano da queste contrade per portare la materia prima in tutta l’isola fino ai porti di Gela, Licata e Porto Empedocle dove la polvere bianca veniva imbarcata su pesanti chiatte proprietà degli Ingham e dei Whitacher, assieme allo zolfo e al salgemma (documenti e carteggi sull’industria mineraria in questa parte della Sicilia, sono stati recentemente trovati da uno studioso di racalmuto, Pietro Carbone, che li ha recuperati nientemeno che da una discarica, dove le carte e4rano state gettate). Il “gesso” veniva estratto dalle cave di contrada Marano, attraverso una rete di piccole esplosioni precedute da mini trivellazioni con pali in ferro a punta piatta: la roccia gessosa si frantumava in grossi massi che venivano ulteriormente frantumati con “pala” e “pico” dai lavoranti. Dalla cava la pietra gessosa veniva trasportata alla vicina “carcara” dove, disposta con maestria in modo semicircolare (ovvero seguendo il perimetro della fornace), veniva fatta ardere per 6-8 ore finché, dal colore annerito, non assumeva un colore bianco-rossastro, più adatto al raffreddamento e quindi alla definitiva “mazziatura” (fase necessaria questa per ottenere la raffinazione della polvere bianca o la selezione più accurata di blocchi da costruzione).
Oggi che il gesso si produce anche chimicamente nessuno sa più cosa farsene delle fornaci di un tempo. E allora giù le “carcare” con i trattori i quattro colpi di picone: il contadino preferisce il terreno seminitavo a quegli scheletri di pietra. Non c’è ne sono quasi più in tutta l’isola, solo a Pietraperzia resistono, in quella valle solitaria, dismesse da una ventina d’anni, dimenticate da tutti, soprattutto dai contadini “proprietari” emigrati in Germania. Insieme alla chiusura delle fornaci sono scomparsi usi, costumi e tradizioni che quel tipo di lavorazione aveva generato nel sostrato culturale delle famiglie “perzine”. Non è rimasto nulla soprattutto sul piano imprenditoriale, malgrado l’industria estrattiva fosse fonte di reddito in quella parte di Sicilia talmente segnata dalla atica e dai bassi salari. Così la disoccupazione, l’emigrazione, la perdita di identità. E’ scomparso tutto da canti, feste popolari, proverbi, consetudini familiari legate alle nascite, ai matrimoni, all’ingresso nel mondo del lavoro, alla trasmissione del mestiere di “issaru”.
Tenacemente oggi la municipalità tenta di rinverdire i fasti della cerimonia più importante dell’anno “Lu Signuri di li fasci”, celebrata in pompa magna dai discendenti dei cavatori e degli stessi carrettieri. Gli anziani “carrettieri” sono in effetti i più convinti divulfìgatori di quelle tradizioni di mezzo secolo fa, e tra un bicchiere di vino e l’altro, riprendono in allegria i canti, le danze e i proverbi della tradizione “issara”. Qualcuno tra di loro parla dei miracoli della Madonna della Cava e dell’addolorata, quest’ultima vera personificazione, a livello simbolico, del dolore e del superamento rituale. Ma il vero miracolo si è compiuto da qualche anno con la ripresa d’interesse verso le “carcare”: la curiosità per quelle sagome di pietra rinasce quando sulla scia delle iniziative collegate al Geopraco Ennese, qualche amministratore illuminato decide di favorire lo sviluppo locale attraverso i “Pit” ei “Por” dell’Unione Europea.
Claudio Paterna
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