Dal policentrismo “esasperato” al policentrismo “disperato”

Dal policentrismo “esasperato” al policentrismo “disperato”
di Massimo Greco

La confusa, ed a tratti schizzofrenica, legislazione in materia di riforme dell’ordinamento delle autonomie locali si ripercuote inevitabilmente sulla triade del processo identitario delle comunità locali: popolo, territorio e sovranità. Se questo stato di turbolenza istituzionale si registra manifestamente a livello statale, è a livello siciliano che la patologia raggiunge la fase più acuta. L’esercizio della sovranità sulle comunità locali avviene attraverso un uso di modelli istituzionali creati in modo disordinato e, sotto il profilo finanziario, parecchio dispendioso. La cura dei più svariati interessi pubblici è ancora oggi affidata dal legislatore ad una pletore di Enti, tutti riconducibili alla galassia della Pubblica Amministrazione. Nel medesimo territorio hanno giurisdizione Uffici periferici dello Stato, Uffici periferici della Regione Siciliana, Uffici periferici parastatali, Uffici periferici degli Enti statali privatizzati, Aziende del servizio sanitario regionale, Università, Capitanerie di porto, Comuni, Unioni di Comuni, Camere di Commercio, Istituti autonomi case popolari, Consorzi di bonifica, Autorità d’ambito per la gestione integrata dei servizi idrici, Consorzi comunali per la gestione di servizi pubblici locali e strumentali, Società pubbliche di regolamentazione del servizio integrato dei rifiuti, Gruppi di azione locali per la gestione dei programmi comunitari, Aziende Speciali. Un vero e proprio ginepraio di pubblici poteri, molti dei quali dotati anche di funzioni autoritative, resistente anche alle più insidiose normative di riduzione della spesa pubblica (spending rewiev). A nulla sono serviti i principi costituzionalizzati di sussidiarietà verticale, differenziazione ed adeguatezza. Il legislatore, che pure aveva avuto tracciato nell’art. 114 della Costituzione l’orizzonte di una funzionale e semplificata organizzazione istituzionale della Repubblica, ha preferito dare spazio alla creatività non certo per dare risposte più adeguate ai bisogni dei territori, ma per assecondare istanze politiche con la “p” minuscola, cioè quelle che considerano la conquista del consenso prioritaria anche rispetto agli interessi pubblici. E, come se ciò non bastasse, nella Sicilia di Pirandello e di Tomasi di Lampedusa, il legislatore regionale ci consegna una riforma dell’ente intermedio che finisce per amplificare lo status quo, facendo evolvere l’attuale policentrismo da “esasperato” a “disperato”. Al posto delle soppresse Province regionali, vengono istituiti super Consorzi comunali per l’esercizio associato di svariate funzioni amministrative riconducibili all’area vasta. Solo formalmente Enti strumentali dei Comuni ma in realtà veri e propri Enti territoriali di governo non previsti dall’art. 15 dello Statuto siciliano. La nuova veste istituzionale dell’Ente intermedio siciliano è stata letta da numerosi Comuni come un occasione unica per rispolverare atavici campanilismi e per mettere in discussione la forzata appartenenza alla medesima circoscrizione provinciale.
Per alcuni Comuni in particolare (Gela e Piazza Armerina), la nuova previsione normativa è stata l’occasione per liberarsi dell’aggettivo di “eterno secondo” e di emanciparsi dal rispettivo Comune capoluogo di provincia, anche a costo di fare un salto nel buio. Il completamento della riforma regionale prevede infatti che i Comuni di Gela, Piazza Armerina e Niscemi, che hanno già adottato le procedure per il distacco dal Consorzio comunale di provenienza, potranno (se lo vorranno) aderire alla costituenda città metropolitana di Catania. L’irrazionalità sembra essere il leit motiv delle nuove politiche pubbliche locali.
Il legislatore siciliano è riuscito nell’impresa di disarcionare la citata triade del processo identitario consentendo un pericoloso disallineamento tra sovranità, territorio e popolo.
Pensare di affrontare il tema delle riforme istituzionali, ancorchè locali, senza avere una visione d’insieme e soprattutto cavalcando l’onda emozionale dell’antipolitica, è un grave errore che la nostra classe dirigente non dovrebbe consentire.

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