Referendum costituzionale. Le ragioni del (mio) no

Referendum costituzionale. Le ragioni del (mio) no

di Massimo Greco

Non sarei onesto con me stesso se non dicessi che alcune delle disposizioni contenute nella proposta di riforma costituzionale sono serie, concrete e certamente utili al nostro Paese ma, al contempo, tradirei la mia vision della Carta Costituzionale se mi limitassi ad approvare l’intero “pacchetto” senza discriminare quelle parti (come la riforma del Senato) che, invero, rappresentano un vero e proprio pasticcio generato dalla maggioranza parlamentare, quest’ultima spinta solo dalla necessità d’impallidire una contesa tutta interna al partito democratico. A questo punto, non potendo accettare l’offerta – dal sapore poco costituzionale e tanto elettorale – attesa l’impossibilità tecnica di “spacchettare” la riforma, mi vedo costretto a votare “no” facendo tesoro di due autorevoli interventi che, peraltro, avrebbero dovuto fungere da faro ai nuovi costituenti. Piero Calamandrei e Temistocle Martines.

Così parlava l’On. Calamandrei (1947): “Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.

Scriveva Martines più recentemente (1993): “Nell’ora del crepuscolo delle istituzioni, quando le nebbie dello smarrimento collettivo ed il buio del degrado civile, politico e morale si infittiscono sempre più, occorre levare, forte e decisa, la voce in difesa della Repubblica, di questa Repubblica e della sua Costituzione, che meritano di essere difese contro coloro i quali vorrebbero trasformarle, senza però avere ben chiaro quale potrebbe essere il futuro assetto dello Stato”. In sostanza, il timore del Professore, oggi più che mai attuale, era quello di scongiurare che le tensioni del sistema politico si riversassero sulle nuove Istituzioni, anche perchè le riteneva “nella maggior parte dei casi, un grosso alibi per i partiti che, incapaci di esprimere un indirizzo politico coerente e riconoscibile, nel proporle tentano di esorcizzare la loro crisi e di riversare sulla Costituzione il disfacimento dello Stato”.

 

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