Troppe capre e pochi pastori
di Massimo Greco
Crisi della politica e crisi della società sono due facce della stessa medaglia; le fibrillazioni del mundus furiosus investono infatti tutto e tutti, dai sistemi di rappresentanza istituzionale, politica e sociale alle identità collettive, ai gruppi civici. Si discute da tempo della crisi delle istituzioni intermedie, dalle Province alle Camere di Commercio, alla stessa Regione, sino ad arrivare alla crisi di rappresentanza della forma partito e della politica. Pertinente l’affermazione di chi sostiene che “è una microfisica dei poteri territoriali che si sente messa in discussione rispetto alla cultura della crisi e a un indirizzo di governo fortemente centralizzatore che spesso concepisce qualsiasi potere o livello intermedio come un costo, saltando a piè pari la società di mezzo, comprese le rappresentanze degli interessi” (Bonomi). E come scrisse Bauman nel suo celebre libro “La decadenza degli intellettuali”, alla formazione dell’identità collettiva e delle regole fondamentali della convivenza hanno concorso sempre figure tipiche, come lo sciamano o il capo guerriero, che hanno trasformato le pulsioni popolari in visioni della realtà e dell’ordine sociale e, allo stesso tempo, attraverso l’organizzazione militare hanno garantito la sicurezza dagli attacchi esterni. Oggi, nel corpo sociale questa “funzione intellettuale” sembra essersi spenta. In tale contesto, il problema più grave è che noi stiamo vivendo la fase finale di questo ventennio orribile che ha distrutto i soggetti politici, sociali e civili nel nostro Paese. E questa è la carenza più grossa: la carenza di fiducia, di coesione sociale, di affidabilità, di credibilità, di prospettiva”. E poiché la crisi dell’Italia, così come quella di gran parte dell’Occidente, è una crisi dell’intelligenza sia individuale che collettiva, una corretta analisi del fenomeno non può che indurre le migliori energie ad individuare formule per (ri)animare, in fretta, tale vitale funzione sociale, rinunciando ad ogni forma di cooptazione della classe dirigente. Lopez in un suo impegno editoriale intitolato “Il mondo della persona”, riprendendo alcune riflessioni nietzschiane sullo spirito gregario, affermava che senza “pastori” un popolo non va da nessuna parte. Una sorta di rivisitazione del principio di Peter adattata al nuovo millennio che, secondo Denault, porta alla corruzione e alla disintegrazione della società. Anche l’antica visione greca della polis ci racconta che una città ha bisogno del governo dei migliori e che la democrazia non è il regime della mediocrità in cui tutte le personalità originali sono soffocate e ostracizzate. Una élite è sempre necessaria a una Nazione, farne a meno significherebbe cedere alle suggestioni della massa che, come ben sottolineava Max Weber “pensa unicamente fino a dopo-domani, esposta all’influenza del momento”. La vera élite, nell’accezione della teoria di Michels-Mosca-Pareto, è quella che si dimostra capace, in un dato momento storico, di interpretare la “comunità del destino”, secondo la formula che verrà elaborata dopo da Carl Schmitt. Ma così non è guardando il nostro Paese. In uno degli ultimi Rapporti Censis sulla situazione sociale del Paese, De Rita arriva ad affermare che “non abbiamo classe dirigente adeguata a evitare il pericolo del baratro e a gestire l’instabilità, e molti addirittura ritengono che essa non esista affatto”.