Il regno di Federico d’Aragona segna una svolta fondamentale nella storia siciliana. Enna ricopre un ruolo di grande importanza in questo lasso di tempo, durante il quale l’isola sognò l’indipendenza e si profilò un chiaro segnale di rinnovamento dopo il Vespro. Vincenzo Littara, storico netino del secolo XVI, racconta nella sua “Historia Hennensis” che Federico era solito “estivare” ad Enna, alloggiando nel famoso Castello che si ergeva maestoso sulla rocca. Si tratta del Castello di Lombardia. Egli continua dicendo che Federico si sentiva al sicuro dentro quella città in posizione fortificata, equidistante dalle coste siciliane; da qui infatti si poteva raggiungere facilmente ogni punto della costa, senza dover percorrere lunghissimi tragitti e dominare nello stesso tempo per lungo raggio tutte le valli circostanti. Quando Federico viene incoronato re di Sicilia a Palermo il 25 marzo del 1296, Paolo Vetri storico ennese del secolo scorso, riferisce di un’usanza che forse risale proprio a quel tempo. Questa costumanza si giustifica anche per il fatto che Enna in inverno, data l’altitudine, è spesso coperta di neve, e il clima rigido di montagna invita a trascorrere le serate di freddo e di gelo in casa. Scrive testualmente: “La classe del popolo, quasi immediata creatura della gleba, la quale vive col lavoro agricolo in un ambiente tutto proprio, quando infuriano i venti, e piogge si scaricano a catinelle, quando i campi sono coperti di neve ed è costretta al riposo, nelle sere di quei giorni di costernazione per confortarsi nella comune miseria, per distrurre le prime ore di quelle notti lunghe e noiose, si riunisce in qualche suo umile e famigliare ritrovo e tratta dei giuochi, i quali chiudonsi con quello che si dice “Santo Papa”. Uno della comitiva, parato pontificalmente, si asside in un seggiolone, i convenuti a vicenda vi si accostano sommessi e riverenti; gli fanno ogni rimostranza di rispetto, lo incensano con polvere tratta dai focolari, gli baciano il piede, gli esplodono i bisogni e ne invocano grazie e favori. Il finto papa, maestosamente atteggiato, seriamente cupo, ascolta, non risponde indi sfiora sulle labbra un riso, così gli adoratori, accorgendosi che di lor non cura, lo mettono bruscamente giù dal soglio, gli strappano la tiara, e con espansiva allegria si applaude. Il papa, beffeggiato, da tutti respinto, fugge per nascondersi, e la rustica compagnia si scioglie”. Il riferimento al papa Bonifacio VIII è chiara, ed il sarcasmo dello scherzo scenografico è un modo di farsi beffe dell’autorità papale in barba agli ammonimenti da parte dei più potenti, quale poteva essere la Chiesa. Questo dimostra come il popolo siciliano in quel momento fosse vicino al re e cosciente di difendere fino al sacrificio l’indipendenza di una piccola monarchia costituzionale, ma esempio di illuminata autogestione.
I momenti più significativi in cui Enna viene esplicitamente nominata da storici, documenti del tempo, proclami, sono molti. Federico dopo la sconfitta di Capo d’Orlando, per prudenza, nel luglio del 1299, si ritirò ad Enna, da dove poteva controllare la situazione generale, poiché qui, come testimonia Nicolò Speciale nella sua “Historia Sicula”, vi era ricchezza di acque, e la fortezza era considerata inespugnabile. Da lì si poteva raggiungere abbastanza presto qualsiasi parte dell’isola, in caso il nemico si facesse vivo. Il 2 ottobre di quell’anno Federico si trovava appunto là (secondo un privilegio ristampato da cui attingono sia il Littara, sia Speciale). Quando Carlo II nonostante il parere contrario del papa, decise di assalire il Val di Mazara, ad Enna si tenne un consiglio di guerra per prendere rapidissime decisioni, e si stabilì che il re a capo dell’esercito avrebbe affrontato il nemico a Trapani. Ad Enna rimase di guardia Guglielmo Calcerando con poche forze. Da lì, come testimonia anche Miche Amari, Federico si mosse con tutto il grosso dell’esercito di cui facevano parte molti ennesi, e la popolazione uscì dalla città per accompagnare il re. Nella pianura di Falconaria fra Trapani e Marsala, avvenne una battaglia decisiva da cui i siciliani, nonostante Federico rimanesse ferito, riportarono una grande vittoria. Il Fazello, storico del cinquecento, nella sua Storia di Sicilia, riporta l’entrata trionfale del re ad Enna, dove fu accolto con “somma allegrezza”, come afferma Littara. La città fu sempre fedele a Federico; un altro momento molto importante per l’apporto dell’aiuto degli ennesi, si presentò quando fu allestita la flotta da inviare nel golfo di Napoli per cercare di fermare il nemico ed evitare un’altra invasione delle coste siciliane. Il 14 giugno del 1300 la flotta siciliana subì una triste sconfitta nelle acque vicino l’isola di Ponza, con gravi perdite di uomini e di navi. Nell’agosto del 1300 Assoro e Realgiovanni, nella valle dell’ennese, si ribellarono, ma Federico, che si trovava ad Enna, come ogni estate, riuscì a domare la rivolta. Gli Angioini cercavano di forzare il fronte ed espugnare la fortezza ennese, attraverso tradimenti trasversali, e di impadronirsi dei feudi attorno al territorio, così si impossessarono, tramite corruzione, di un castello vicino Leonforte, chiamato Taba. Questi tentativi riusciti parzialmente, non piegarono mai la fedeltà al re di Sicilia degli abitanti di Enna. L’aiuto della città fu di fondamentale importanza nel corso di tutto il periodo di guerra che ha preceduto la pace di Caltabellotta. Un aiuto sostanziale da parte di Enna fu dato alla città di Messina assediata da Ruggero Lauria nell’estate del 1301. Non avendo un’entroterra fertile, difficile per la presenza di sentieri di montagna disagiati, la carestia aveva raggiunto proporzioni incredibili, per cui Federico, da Enna portò viveri e vettovaglie, e da Messina guidò la popolazione in un esodo verso le zone del centro per cercare di salvare quanta più gente possibile. La pace di Caltabellotta segnò un momento fondamentale di tregua per tutta l’isola. Passeranno ben dieci anni durante i quali anche Enna godrà di grossi vantaggi. Federico sposerà Eleonora, figlia di Carlo II d’Angiò, nel maggio del 1303. Inizia così un periodo di relativa calma e di ripresa economica, anche nel campo dell’edilizia religiosa. Eleonora promuove la costruzione del Duomo di Enna, la città si arricchisce di costruzioni, di torri. Il primo problema che si presentò fu la smobilitazione delle forze militari. Infatti pose grossi problemi la presenza di molti soldati mercenari, che rimasero senza possibilità di lavoro.Una guerra contro i Turchi che minacciavano l’impero sul fronte orientale, permise di inviare all’imperatore bizantino Andronico II tutti i mercenari, che in seguito formarono la famosa Compagnia catalana, efficentissima militarmente, ma anche autrice di efferate crudeltà, conquistatrice a favore di Federico del ducato di Atene e di Neopatria. La Sicilia divenne una confederazione di città e di signorie feudali sotto la reggenza del re. Le città avevano un’autonomia governativa composta da magistrati elettivi, con un proprio bilancio e truppe per resistere in caso di attacco. Enna, per la sua importanza strategica e militare aveva un presidio ben equipaggiato, anche per la ripetuta presenza della famiglia reale, che era solita alloggiare nel Castello arroccato in alto e munito di un grande numero di torri fortificate. L’impianto medievale ben si adattava alla città posta su un altopiano e scoscesa. Una rete di torri militari e di avvistamento circondava tutto l’abitato. Molte di queste sono state inglobate successivamente nelle chiese a mo’ di campanile, ma molte di esse sono riconoscibili per la struttura stessa architettonica e per la posizione. Enna era ricca di acque, di boschi, di cereali (non bisogna dimenticare che la città fin dalla notte dei tempi fu la sede del culto di Demetra-Cerere, dea delle messi). La pastorizia era largamente praticata, con il vantaggio della ricca produzione di latte e derivati (cacio, ricotta), nonché la lana, le pelli, la carne. Il pane, la “pagnotta”, era uno degli alimenti base, realizzata con farina di frumento o anche di segale, di cereali misti; i legumi, quali lenticchie ceci, fave, erano molto diffusi. La minestra d’orzo o di farro, di cavoli, o verdure in genere, era uno dei cibi base di tutte le famiglie. La carne rimane l’alimento più importante per il nutrimento di tutta la popolazione.
Ad Enna, era comune trovare cinghiali, pesci d’acqua dolce, per la presenza del famoso lago di Pergusa, ma anche di torrenti e corsi d’acqua, e del fiume Salso. Le case erano fatte anche di mattoni misti a copertura di paglia specialmente negli agglomerati agricoli, nelle aree a valle della città. Le grotte, di cui Enna è ricca, furono ampiamente abitate anche in periodo medievale, e servivano per alloggiare anche gli animali. L’agiatezza, la circolazione monetaria, l’importazione e l’esportazione dei prodotti locali, incluso il legame, permisero anche un maggiore benessere nei ceti medi e contadini. Si indossavano abiti realizzati con lane importate colorate, e non più ruvidi indumenti monocolori di orbace, un tessuto fatto di lana poco lavorata, rustica, pesante ed impermeabilizzata per le intemperie invernali. Si portavano ornamenti costosi, alle feste, agli spettacoli, negli incontri mondani. Le vie di comunicazione erano costituite da sentieri polverosi, percorsi a dorso di mulo e di animali da soma, che trasportavano derrate alimentari, merci, prodotti vari. Il mare era la via di comunicazione più seguita. Il Salso che era stato una strada di transito attraverso cui si esportava il grano verso i porti caricatori fino al periodo tardo-bizantino, era poco battuto, forse perché la presenza delle masserie accanto ai castelli, che spesso si trovavano lungo il percorso dall’entroterra alle coste, permetteva soste ai viaggiatori che preferivano ai fiumi, le strade, e le mulattiere, più frequentate, avendo così modo di fermarsi per rifocillare animali ed uomini. La presenza degli Aragonesi ad Enna è largamente attestata dai ritrovamenti di ceramica medievale. Al Castello di Lombardia, durante tre campagne di scavo seguite da me, di saggi di scavo nei vari cortili interni, e durante l’apertura di uno degli ingressi che dall’esterno conduceva direttamente alla parte centrale dell’intero complesso, in mezzo alla enorme quantità di terreno di riporto estratto, sono state ritrovate moltissimi resti ceramici del periodo aragonese. Si tratta di ceramica raffinata, dipinta, con la presenza dello scudo crociato, sono vasi frantumati di varie dimensioni, piatti a vernice lucida con disegni a strisce su fondi bianchi, gialli, grigi, molti di essi con motivi ornamentali pregevoli, di spirali, volute, che comunque lasciano larghi spazi tra un decoro e l’altro. Le monete ritrovate sono in bronzo, sottili, di fattura non perfetta per il conio impreciso, con lo scudo crociato su una faccia, mentre sull’altra si intravvede o la testa regale o il re seduto. Di recente, durante i lavori di restauro del Castello da parte della Soprintendenza ai Beni Culturali di Enna, sono state ritrovate una torre interrata, mura di fortificazione risalenti al XIV secolo, alcune delle quali del periodo aragonese. A metà costa, nel centro urbano, ai margini dell’abitato in pieno centro storico, sotto la chiesetta di S.Paolo del ‘500, abbandonata da moltissimi anni, è stata rinvenuta una grande cisterna interamente riempita di pregevolissima ceramica normanna, aragonese, e tardo medievale, che fa comprendere come la città godesse del favore del ceto elevato, della corte stessa, che spesso abitava in loco, così come testimoniano gli storici. La ricchezza, e la magnifica fattura dei piatti, dei vasi, delle suppellettili, fa supporre che molto ancora c’è da scoprire della città medievale, che però è interamente inglobata nella città odierna. Federico si fermava spesso ad Enna nel Castello detto di Lombardia, con la moglie e i figli. Ma la situazione di stallo non sarebbe durata a lungo. La discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo, con il quale Federico si allea per cercare di mantenere per sè e i suoi discendenti la Sicilia, e non consegnarla alla sua morte agli Angioini, secondo gli accordi di Caltabellotta, poco servì alla causa siciliana.
La morte di Enrico, cambiava tutto: Roberto d’Angiò riacquistava potere: Federico, riunito il parlamento a Messina nel giugno del 1314, otteneva la proclamazione del figlio Pietro quale erede, ed assumeva il titolo di re di Sicilia. Da Enna il 9 agosto dello stesso anno indirizzava una lettera a Palermo dove esortava i siciliani a resistere, esordendo così: “Fridericus, Dei gratia, rex Siciliae…” questo era l’appellativo di cui si fregiava il re. Era salito intanto al soglio di Pietro, Pietro Giacomo di Cahors, che prendeva il nome di Giovanni XXII, il quale sostenne le parti di Roberto. Per tre anni si stipulò una pace precaria ad opera del papa. Federico, fu costretto a toccare le rendite ecclesiastiche, per motivi di necessità, per la difesa del regno, viste le pessime condizioni delle finanze. Questo fu molto sgradito al papa che nel 1321 colpì la Sicilia con l’interdetto che sarebbe stato revocato nel 1334. Nel 1324, riunito il parlamento ad Enna, emanava, quei capitoli che prevedevano pene severe per i banditi, regolavano i diritti e i doveri dei poteri feudali, segregavano gli Ebrei dalla comunità cristiana. Nel 1334 venne revocato l’interdetto da parte di papa Giovanni XXII, per l’occasione furono celebrate molte solennità in tutta la Sicilia ed in particolare ad Enna: tutte le cerimonie vengono descritte in un inno in latino incolto: “Audiant cuncti, et letentur novum factum, et mirentur quod evenit nunc cristicolis, generaliter et siculis…”. In un diploma del 28 settembre 1336 (ricordato in un altro del 1350), Federico si trovava ad Enna, già afflitto dalla gotta, e pieno di malanni. Il 25 giugno del 1337 egli spirava all’età di 65 anni e veniva sepolto nella cattedrale di Catania. Scrive Nicola Speciale: “…È venuto il giorno della mestizia, il tempo del lutto,…lo scudo della vostra difesa è infranto… Il vostro sole s’oscurò nell’eclissi, e la vostra terra s’è ravvolta nelle tenebre”. Egli fu come una stella cadente, che lasciò però nel passaggio un grande solco luminoso.
Anna Maria Corradini
Federico II e la sua modernità: il sogno degli Stati Uniti d’Europa.
L’analisi storica di un territorio deve servire a fare emergere, nella consapevolezza collettiva, utili elementi di conoscenza e contributi concreti per lo sviluppo economico e sociale. Nell’epoca attuale, l’aumento degli scambi e delle relazioni, conseguenza di una frenetica mobilità di uomini, merci ed informazioni ha prodotto, nell’intero pianeta, la progressiva scomparsa dell’importanza di luoghi, come fu quello di Henna “umbilicus siciliae”, che per la loro centralità geografica hanno avuto una storia che ne connota la specificità territoriale. A questa specificità bisogna, invece, guardare per restituire, soprattutto alle giovani generazioni, quel sentimento di “appartenenza”, che si deve tradurre in senso civico e in azione di valorizzazione del proprio territorio e di recupero del patrimonio storico e paesaggistico, visto come opportunità di sviluppo.
Così Ovidio nelle Metamorfosi:
“…. non lontano dalle fortificazioni di Enna, si trova un lago denominato Pergo, dalle acque profonde. I rami donano frescura, la terra bagnata i fiori purpuri; è un’eterna primavera”
Ed ancora Aristotele nel De mirabilibus auscultationibus: “ In Sicilia nei dintorni della città chiamata Enna, si dice ci sia un luogo attorno al quale dappertutto dicono che cresca un’enorme quantità di diversi fiori per tutto l’anno, e molto tale luogo soprattutto sia pieno in maniera sterminata di viole che riempiono di soave odore la terra intorno, così che quando c’è la caccia, pur possedendo i cani un forte senso dell’odorato, divengono impotenti ad inseguire le orme delle lepri”. Il fascino di Pergusa, la sua incomparabile bellezza naturale, le suggestioni letterarie legate al ratto di Proserpina attrassero anche Federico II, l’imperatore svevo appassionato di caccia, abile falconiere, autore di un manuale sull’arte della falconeria (De arte venandi cum avibus, L’arte della caccia con gli uccelli), di cui molte copie illustrate nel XIII e XIV secolo ancora sopravvivono.
Ritratto dell’imperatore svevo, da un dipinto del noto artista Antonio Molino. Questa immagine è stata usata per la copertina che l’editore Giorgio Mondatori ha riservato a “L’universo degli uccelli” di Federico II di Svevia da lui pubblicato nel 1988
Perfino i nemici chiamarono Federico II “Stupor Mundi”, la meraviglia del mondo: era coltissimo, raffinato, poeta e scrittore, studioso di grande talento, guerriero abile e governante acuto. La sua accesa curiosità intellettuale lo portò ad approfondire la filosofia, l’astrologia, la matematica, l’algebra, la medicina e le scienze naturali. Con le “Costituzioni di Melfi” tentò di costruire uno Stato nel senso moderno del termine e, già a quei tempi, l’unica via per garantire pace e sviluppo. Vagheggiava un mondo in cui l’incontro fra culture diverse potesse diventare un cammino di conoscenza tra i popoli e seppe interpretare un periodo di profondo cambiamento, dibattuto fra integralismo cattolico e stato laico, superstizione e scienza nascente, dogmatismo e libero pensiero. Il suo atteggiamento di fronte al mondo intellettuale ci dimostra che era già pervenuto al concetto dell’unità e dell’universalità del sapere umano, attraverso il quale veniva abolita ogni differenza fra un dotto cristiano, musulmano ed ebreo, in un embrionale afflato che oggi potremmo definire ecumenico. Aveva vedute estremamente larghe, tanto da apparire eccentriche in quel suo secolo ancora così ignorante ed era tanto accorto da capire che gli Stati nazionali ormai erano troppo autonomi perché un imperatore “forestiero” potesse assoggettarli con la forza. Allora immaginò, e cercò di realizzare, qualcosa di nuovo: una sorta di confederazione tra i vari Stati nazionali (Francia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Ungheria, Germania, Italia) guidati ciascuno dal proprio re per le questioni nazionali, ma uniti sotto la direzione dell’Impero: era un progetto “moderno” per quei tempi e che avrebbe cambiato dal profondo la storia dell’Europa. Quella che auspicava era un’Europa di nazioni con identità culturali diverse e peculiari, organizzata intorno ad un progetto politico superiore comune. “Impero e tuttavia nazioni” come commenta Kantorowicz con grande sintesi. Una visione molto simile a quella che ebbe ad esprimere Charles De Gaulle nel 1950, settecento anni più tardi. Questa è la ragione per la quale la Comunità Europea considera Federico II il suo ideale “fondatore”: ignaro precursore di avvenimenti e di aspirazioni che sono ancora vivi nel mondo contemporaneo, egli anticipò la visione di una civiltà europea, mediterranea e cosmopolita. È quindi lecito ritenere che possa restare, nell’apprezzamento dei più attenti osservatori del nostro secolo, oltre che lo statista, il condottiero, il legislatore, come il regnante che per primo ha cercato di applicare il precetto della fratellanza e dell’integrazione razziale, mutuato dalle esperienze acquisite nella Palermo duecentesca; come il politico che vide la possibilità di unificare l’Italia dal punto di vista non solo legislativo e territoriale ma culturale, linguistico, letterario; come l’uomo che avrebbe potuto anticipare di secoli l’avvento di una società laica ed aconfessionale, conducendo l’Italia verso il consesso degli Stati nazionali europei più progrediti. Non poco.
Federico II nasce a Jesi da Costanza d’Altavilla, in una tenda attrezzata nella piazza principale della cittadina marchigiana, immagine tratta dalla “Cronica figurata di Giovanni Villani”.
Da Jesi, luogo della sua nascita, venne in Sicilia, trascorrendo la sua infanzia tra i quartieri palermitani. Divenuto re, ne vivacizzò la vita intellettuale, rendendola recettiva e diffusiva delle correnti culturali del Mediterraneo. Contribuì con la fondazione della Scuola siciliana ad innovare la letteratura con l’uso del volgare siculo-pugliese, ingentilito dal provenzale dei trovatori che frequentavano la sua corte. Affascinato dalla classicità, amante dell’arte e della bellezza si dedicò con proprie idee a quelle grandi creazioni architettoniche che sono i castelli e le fortificazioni del Regno di Sicilia. Pietro da Eboli, Costanza d’Altavilla e il neonato Federico II, miniatura, Liber ad honorem Augusti, cod. 120 II, c. 138r, Burgeebibliothek, Berna
Fu Federico II, nel “Colloquium Generale “ di Foggia del 1240 a dotare Enna dello stemma raffigurante l’aquila bicefala, segno del forte legame che il sovrano ebbe con la città. Di Enna apprezzò a tal punto la posizione strategica che decise di consolidare il Castello di Lombardia, rafforzando la sua struttura difensiva. Nei documenti svevi il Castello viene, infatti, definito “Castrum Regium”. Abile falconiere e appassionato della caccia, si dice che abbia fatto edificare la Torre di Federico, residenza estiva, concependola come una “Domus Regia”, vera e propria palazzina di caccia, da dove spesso si recava a Pergusa, luogo ricco di acqua, boschi e selvaggina.
Fu su incarico della corte degli Svevi che l’’architetto Riccardo da Lentini ristrutturò il Castello, innalzando venti bellissime torri per rafforzare gli imponenti muraglioni stretti attorno agli atri residenziali. Durante il periodo svevo il Castello di Lombardia (cosi denominato perché difeso da fanti della Calabria lombarda) conobbe il culmine della sua importanza strategica; noto come uno dei più inespugnabili d’Italia fu una roccaforte di assoluta eccellenza dove, per due volte fu riunito il Parlamento del Regno svevo.
La Torre di Federico, uno dei maggiori monumenti federiciani, conservatisi nel nostro Paese, secondo la tradizione fu un’opera di Riccardo da Lentini. Le sue origini, secondo recenti studi, risalgono alla metà del XIII secolo, ovvero all’età manfrediana, fattore quest’ultimo che avvalora la tesi che a volerla e ad abitarvi fu il Federico svevo piuttosto che l’omonimo aragonese. Altro argomento a sostegno dell’origine sveva del monumento è l’inconfondibile impianto geometrico che caratterizza gli altri castelli di Federico II di Svevia, di cui la Torre di Enna è un mirabile esempio. Proprio come testimonianza di quel progetto moderno che l’imperatore ebbe tentando di unire i suoi territori (Regnum Siciliane e Imperium) come primo tassello di un’Europa unita, che ancora oggi stenta a realizzarsi, è nata nel 2007 la Settimana Europea Federiciana “ Federico II e il Sogno Europeo” per mantenere vivo il ricordo del sovrano che dotò la città dello stemma con l’aquila imperiale. Il 9 maggio si celebra la Festa dell’Europa, giorno della dichiarazione di Schumann da cui partì nel 1950 il processo d’integrazione europeo ed è proprio nella prima quindicina del mese che si svolge l’evento che vede per una settimana la città di Enna respirare l’epoca medioevale con una prospettiva rivolta ai temi europei attuali, ma anche con rievocazioni storiche come il corteo, ideato da quel grande educatore che fu Edoardo Fontanazza. In pochi anni l’evento è riuscito a coinvolgere l’intera città, diventando vivace laboratorio di talenti e proficuo momento d’incontro tra associazioni, quartieri storici, scuole, università, personalità di fama internazionale e semplici cittadini, in un percorso che va diritto verso l’Europa delle genti, della condivisione e dell’integrazione. Si vuole in questo modo allargare nelle nuove generazioni il concetto di “appartenenza”, senza rinunziare alla propria identità , dalla realtà locale a quella sopranazionale che devono far crescere e completarne il processo d’integrazione. . Attraversiamo la fase decisiva dell’evoluzione della statualità moderna, dallo Stato apparato, centralistico e autoritario, allo Stato comunità, di cui i veri sovrani sono i cittadini e il cui valore costituzionale supremo è la persona umana e la sua dignità. Educare il cittadino non è soltanto compito della scuola, ma il territorio stesso, che porta su di sé i segni del passato, è occasione per una paideia civile, una formazione alle virtù civiche della giustizia, della tolleranza, del rispetto delle diversità, della solidarietà e soprattutto dell’amore per il proprio paese. Farne conoscere la storia, recuperando luoghi e usanze antiche, in prospettiva anche di una potenziale risorsa economica, è responsabilità di tutti coloro che credono a quelle che i Greci chiamarono “ virtù politiche”, le sole che consentono agli uomini di vivere nell’affetto per la polis, da uomini liberi.
Cettina Rosso Presidente della Casa d’Europa