sabato , Luglio 27 2024

Vergine Santa Maria SS. della Visitazione Patrona di Enna – video e foto

Enna maria-ss- visitazioneL’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Lc 1, 46-48

Per la grande festa patronale, tutta la città di Enna attribuisce alla Vergine Santa il suo tributo e la sua lode.
Contempleremo il volto e la presenza materna di Maria.
I nostri padri hanno scelto per questa città un’icona di carità e misericordia: “la Visitazione”.
Papa Paolo VI nella sua Marialis Cultus (n. 7) parla della Visitazione ricordando che «la beata Vergine Maria porta in grembo il Figlio», Essa si reca da Elisabetta per «portarle l’aiuto della sua carità e proclamare la misericordia di Dio Salvatore».
La Visitazione è dunque una pagina di vita quotidiana, dove la solidarietà e la compagnia umana viene permeata dalla presenza di Dio, che dà sostanza a tutto ciò che accade.
Maria, ieri come oggi, porta aiuto e loda Dio per la meraviglia operata in lei. Essa annunzia, a chi come la cugina Elisabetta vive un tempo di prova, la grandezza dell’amore misericordioso di Dio.
Maria nel suo coraggioso viaggio della carità insegna nel Magnificat l’inno di lode a Dio, come la Mamma celeste anche noi apriamoci alla carità e alla lode

La Vergine Santa, Maria SS. della Visitazione protegga sempre il popolo Ennese.

“Sino a un certo tempo la festa della Madonna della Visitazione raggiunse uno splendore mai visto; da tutte le contrade dell’isola veniva gente a piedi e a cavallo per assistervi, anche perché, in coincidenza con la solennità, si svolgeva la fiera di San Pancrazio, una grande e ricca fiera-mercato”.

Così il sacerdote Vincenzo Grimaldi Petroso inizia il racconto della grande Festa del due luglio in una sua pubblicazione del 1790 (edita a Roma dalla Stamperia di Gioacchino Puccinelli), ripreso in uno scritto di Salvatore Morgana dal titolo “Maria Santissima Patrona Populi Hennensis”.

La narrazione del Petroso così continua: “A ricordo del viaggio del Simulacro da Messina ad Enna, si usava portare su un carro trionfante, sino al pianoro di San Sebastiano al Monte, la statua lignea della vergine. Il carro era a tre piani, nel primo in basso era l’orchestra con i cantori che cantavano le laudi alla Madonna, nel piano superiore erano i bambini vestiti da angioletti, in alto era il simulacro della Vergine.

Giunti al Monte, attorno al carro vuoto veniva accesa una grande luminaria e il popolo si compiaceva delle fiamme, cantava e applaudiva”.

Nei primi tempi dell’istituzione della Festa le modalità dei festeggiamenti ricalcavano gli antichi riti della “Cerealia”. “Ogni anno e per molti decenni seguenti, scrive il sacerdote Petroso, dopo il 29 giugno 1412, giorno in cui giunse ad Enna la Sacra effige, la solenne processione della Patrona di Enna, si svolgeva ricalcando gli antichi riti”. “Attraversava tutta la città lungo la strada Maggiore o dei Cavalieri (attuale Via Roma); la vigilia della Festa, una cavalcata, composta da cavalieri, muoveva dal piano delle Case Grandi verso la chiesa dell’Annunziata (ora del Carmine), per rilevare il Gonfalone della città e, insieme alle Confraternite, con le loro insegne, veniva portato al Duomo ove veniva posto sul soglio della municipalità, dove sedevano i Senatori”.

Inoltre, aggiunge ancora il Petroso, “quanti intervengono alla processione portano in braccio le torce accese. Pompose le dodici grandi torce del diametro di sette once, ed altri dodici gran ceri, aventi il diametro di un palmo e mezzo, portati da altrettanti dodici uomini vestiti di bianco lino e scalzi”. In quel tempo partecipavano alla solenne processione il Capitolo della Collegiata della Chiesa Madre al completo, il civico Senato, seguivano le Confraternite con le insegne e i loro gonfaloni, i dodici Parroci delle dodici parrocchie, tutti in cappa d’ermellino, il Magistrato, i nobili e la milizia in armi.

Solo a partire dal 1590 la statua della Madonna è portata su “La nave d’oro” che fu ultimata ad opera dello scultore Scipione da Guido e che in seguito, verso la fine del ‘600, fu sottoposta a restauri. Il Fercolo, nel 1732, fu arricchito di fregi e infine, nel 1957, fu definitivamente restaurato da un certo maestro Fedele, indoratore di Catania.

Il 2 luglio è il giorno centrale della festa della Patrona, solennizzata, dapprima, con messe in duomo e poi, di pomeriggio, con la processione. Sin dal 2 giugno vengono dedicate in onore della Madonna messe e tridui, con largo intervento di fedeli, non pochi dei quali, specie al mattino per la messa delle 6,30, celebrata in duomo durante il mese di giugno, vengono dalle loro abitazioni a piedi scalzi ed in forma penitenziale.

Questa usanza antichissima viene chiamata in dialetto “u’ priu”, cioè gioia, festa, poiché tutte le campane del duomo suonano a distesa prima della messa. Mentre si svolge la messa mattutina del 2 luglio, a Montesalvo vengono sparate 101 salve di mortaretti. Poi le sacre funzioni si susseguono senza interruzioni.

Alle 10,30 un solenne pontificale celebrato dal vescovo della diocesi di Piazza Armerina (da cui dipende Enna) alla presenza delle maggiori autorità civili e militari locali.

Sulle scale dell’ingresso principale della chiesa, la banda municipale, che ha già percorso le vie principali della città suonando marcette, intona ad intervalli della musica che rispecchia inconfondibilmente quest’aria di festa. Subito dopo l’ultima messa, viene allestito il grande fercolo sul quale verrà portato in processione il simulacro della Madonna.

I confrati di Maria SS. della Visitazione lavorano febbrilmente per montare i “bajardi”, cioè le aste esterne del fercolo, dalla sagoma ovale, in legno stagionato, irrobustite all’interno con ferro e rivestite in pelle. La loro fattura risale al 1891. Caratteristici sono i numeri progressivi stampigliati a fuoco sulla parte laterale dei “bajardi”.

Essi determinano il posto di spalla, cioè lo spazio che viene occupato dai confrati portatori, tramandato da padre in figlio per intere generazioni. I posti numerati sono in tutto 124: da 1 a 100 all’esterno, dal 101al 102 agli anelli esterni e da 113 a 124 nelle traversine interne. Quindi, i portatori dovrebbero essere 50 per lato, 3 per anello esterno e 3 per traversina, ma ogni anno sono sempre di più.

La numerazione è contemplata specificatamente nello statuto originale della confraternita. I posti più impegnativi, che richiedono maggiori sforzi fisici per i portatori, sono i dodici per lato, sotto il cassone della “nave d’oro”. La vestizione del simulacro della Madonna viene completata nel primo pomeriggio, alla presenza di poche persone; infatti le porte esterne del duomo sono chiuse e l’accesso in chiesa è sorvegliato dalla forza pubblica.

La statua della patrona viene a poco a poco ricoperta dai cosiddetti fasciuna, stoffe in panno rosso nelle quali sono cuciti innumerevoli monili d’oro, collari, anelli, orecchini, bracciali, che i fedeli di tutti i tempi hanno donato come ex voto e che ricoprono interamente la Madonna.

Infine, sul capo della statua, viene posta la corona d’oro, inestimabile gioiello di pregiata oreficeria, espressione del raffinato livello artistico dell’artigianato siciliano dell’epoca. Questa fu cesellata nel 1652 dagli orafi palermitani Leonardo Montalbano e Michele Castellani, ed è suddivisa trasversalmente in due sezioni sovrapposte. In quella inferiore sono rappresentati, su equidistanti e artistici medaglioni m smalto decorato, la Natività, l’Adorazione dei Magi, lo Sposalizio di Maria, l’Annunciazione, la Visitazione a S. Elisabetta e la Resurrezione di Gesù.

Nella parte superiore vi sono delle effigi di angeli disposti tutt’intorno. La corona è tempestata di gemme e pietre preziose, tra le quali fanno spicco i rubini, i granati, gli smeraldi ed un’infinità di brillanti che avvolgono come in una nuvoletta lo intero gioiello. Verso le 17 la chiesa viene aperta ai fedeli, che così possono ammirare il grande fercolo della Madonna, in dialetto vara, chiamato “nave d’oro” poiché è finemente laminato in oro zecchino.

La “Nave d’oro” fu intagliata nel 1590 dallo scultore Scipione di Guido che dipinse anche la struttura portante centrale con degli splendidi colori dai contrasti policromi. Nel 1600 la “vara” fu ulteriormente restaurata ed in un primo momento la si voleva rifare in argento, tanto che fu fatto venire da Palermo un argentiere, tale Michelangelo Merendino, il quale realizzò il primo angelo.

Poiché la “Maramma” non era rimasta soddisfatta di tale fattura, l’argentiere Sebastiano Lancello, anch’egli palermitano, eseguì un secondo angelo in argento, nel 1667. La evidente diversità fra i due angeli dissuase gli amministratori dei beni del duomo a proseguire con questo genere di lavoro. Solamente nel 1732 il fercolo ebbe un restauro più sistematico, che fu affidato all’intagliatore Paolo Gu glielmaci e all’indoratore Gregario Grimaldi. Infine, nel 1957, il maestro Fedele di Catania restaurò ancora una volta la “nave d’oro”.

La vara della Madonna ha una forma rettangolare; per ciascuno dei due lati maggiori vi sono tre grandi angeli dalle ali spiegate che sorreggono, a guisa di cariatidi, due semiarchi, posti su un capitello in stile ionico retto dalla loro testa, che congiungono il tetto. Questo è smaltato all’interno in celeste, mentre all’esterno è laminato in oro. Dall’alto dei semiarchi laterali, e dagli archi anteriore e posteriore, pendono artistici festoni e pennacchi. Il tetto esterno è sormontato da una edicola esagonale finestrata sulla quale c’è Gesù risorto che regge un piccolo stendardo. Sulla sommità degli archi e dei semiarchi sono posti degli angioletti che suonano vari strumenti musicali.

Al centro del tetto interno vi è come una grande stella dai raggi marcati e da essa si proietta verso il basso l’effige di Dio Padre e la colomba dello Spirito Santo, che sembrano adagiati su una nuvoletta in rilievo d’oro zecchino. Nelle navate laterali della chiesa vi sono i simulacri di S. Giuseppe e S. Michele che precederanno nella processione la “nave d’oro”.

Intanto cominciano ad arrivare i primi “Nudi”. Alle 19 la grande processione comincia a muovere dalla chiesa madre. Apre la sfilata un grandioso stendardo sorretto da abili uomini che compiono caratteristiche evoluzioni, degne dei più famosi equilibristi. Infatti, riescono a percorrere diverse decine di metri, poggiando l’estremità inferiore dello stendardo sulle punte delle dita o sulla fronte, oppure addiritura sul naso. Moltissimi sono i bambini con l’abito della prima comunione, seguiti da gruppi di donne che compiono il consueto viaggio a piedi scalzi, per penitenza. Le confraternite della città sono rappresentate con le bandiere : i confrati indossano gli antichi costumi spagnoli, con le mantellette multicolori e i cappucci a visiera alzata.

L’ordine delle precedenze è uguale a quello della processione del Venerdì Santo; non partecipa la rappresentanza dell’arciconfraternita delle Anime Sante del Purgatorio, che interviene solamente alle processioni della Settimana Santa, mentre la bandiera della confraternita di Maria SS. della Visitazione precede la “nave d’oro”. Alle confraternite seguono i simulacri di S. Michele Arcangelo e S. Giuseppe, portati a spalla dai giovani confrati di Maria SS. della Visitazione, che compiono il noviziato, aspirando di portare negli anni successivi la vara del la Patrona.

La grande insegna dello Spirito Santo, sorretta dal rettore di questa confraternita, è interposta fra le statue dei due santi. Non appena questa parte di processione ha iniziato a sfilare dalla chiesa madre, è la volta della “nave d’oro”, cui, prima di muovere dalla navata centrale, vengono tributate acclamazioni dai “Nudi” che recitano in ginocchio una breve preghiera, seguiti da invocazioni dialettali che terminano con il corale “Viva Mari”.

Mentre la vara si affaccia sul portale centrale del duomo, nella adiacente piazza Mazzini vengono sparate assordanti salve di mortaio che sembrano un autentico bombardamento, fragoroso e prolungato, tra lo stormire a festa di tutte le campane delle chiese cittadine, quasi ad esprimere un saluto alla Patrona, all’inizio della sua processione. Allo sventolio dei fazzoletti bianchi che i portatori del la “nave d’oro” tengono in mano, un po’ per asciugare i copiosi sudori che da lì a poco verseranno, un po’ per avvolgere le rudi corde che legano ai “bajardi” per consentire una presa più sicura, la processione muove dalle scale del duomo.

La via Roma, separata da due grandi ali di folla reverente al passaggio della processione, è sfarzosamente illuminata da archi di lampade multicolori, che congiungono la parte alta dei palazzi. I confrati portatori procedono a piedi nudi e vederli nel loro incedere stentato e sbilenco a causa delle diverse stature, sotto il gravoso peso della vara, infonde un senso di commozione.

Infatti i posti numerati, essendo stati assegnati tanti secoli fa ai loro antenati e poi tramandati per decine di generazioni, non permettono ai portatori di disporsi secondo un graduale ordine di altezza, per cui capita che due confrati di statura inferiore alla media siano collocati allato ad un confrate più alto e viceversa.

I portatori indossano i caratteristici camici a sacco, formati dalla vistina legata alla vita e dalla cammisa a guisa di casacca, i cui bordi inferiori e superiori sono ornati con pregevoli ricami e merletti confezionati al tombolo o all’uncinetto. Sulla spalla esterna, dove non poggia il “bajardo”, c’è una sorta di grande fazzoletto triangolare di colore celeste, annodato sotto l’ascella opposta e uno stretto scapolare di nastro, anch’esso celeste, che termina con un’effige rettangolare dal bordo a frangetta dorata, su cui è ricama to il monogramma di Maria tra i fiori e ramoscelli.

Il rettore della confraternita di Maria SS. della Visitazione precede la “nave d’oro” insieme ai componenti del consiglio di amministrazione. Anch’essi sono a piedi scalzi ed indossano la mantelletta di raso celeste recante a sinistra l’effige ricamata dalla Patrona. Quando viene appiccato il fuoco alle micce dei mortaretti, la “nave” viene fermata e non riprende il suo percorso se prima non si ode l’inconfondibile ultima esplosione, la più fragorosa, chiamata “’a botta du masciu”.

Copyright – Luigi Nicotra. Ogni diritto è riservato all’Autore.

Attraversata la via Roma si giunge in via Mercato, dove la processione si immette in un angusto budello, in cui riesce a passare a malapena la “nave d’oro”. Questa, addirittura, viene tolta di spalla e portata dai “Nudi” quasi raso terra, sorretta dalle corde saldamente ancorate ai “bajardi”. E’ una discesa snervante e sfiancante, e al tempo stesso la più spettacolare. Questa via, chiamata “’a calata da Abbatiedda”, è lastricata con basole levigate di pietra lavica e spesso i piedi scalzi dei portatori vi scivolano. Un breve tratto percorso lentamente ed ecco uno dei punti più difficili : la curva che immette nel cosiddetto “chianu de’ prucini”. La via Mercato raggruppa in un unico quartiere diverse piccole frazioni contigue che vengono indicate con antichi toponimi. Oltre alle già cennate “Abbatiedda” e “chianu de’ prucini”, esistono tutt’oggi le denominazioni originarie di questi luoghi.

La prima è la cosiddetta “Mola”, dove anticamente esisteva il maggiore mulino di Castrogiovanni, che si affaccia sulla sottostante via Passione; poi c’è la zona di S. Matteo, occupata nel secolo XVI dagli esuli di Fundrò, Gatta e Rossomanno, che, avendo appoggiato nelle lotte feudali contro re Martino I le famiglie Scabro degli Uberti, Ventimiglia e Chiaramonte, ebbero confiscate le loro terre di origine. Infine il famoso “passu da Madonna” che s’innesta immediatamente dopo con “’a purtedda du Rizzu”: il punto cruciale e più impegnativo, dove spesso le forze dei portatori cominciano a venir meno. Pochi strattoni decisi e una rincorsa per via Montesalvo.

Ultima curva importante, quella situata nel “chianu di S. Vastianu”, che immette nell’ultima salita che conduce direttamente a Montesalvo, nella cui chiesa si conclude la processione. Le ultime centinaia di metri che separano il tratto di strada dall’agognata meta sono le più tormentate e vengono percorse dai portatori un po’ di corsa, un po’ arrancando a malapena, tanta è la stanchezza degli uomini. Nei loro volti si legge inconfondibilmente la fatica, il dolore fisico, la prostrazione: maschere di sudore, con gli occhi arrossati e l’espressione sconvolta, emergono allineate l’una dopo l’altra.

Piazza Europa e la zona adiacente il mercato ortofrutticolo sono stracolme di persone: pare che tutta la popolazione si sia assiepata qui per vedere passare la vara della Madonna. Mentre il sole tramonta all’orizzonte e solo pochi metri separano dalla chiesa di Montesalvo, l’immensa folla sembra aprirsi attorno alla vara. Giunti sulla sommità di Montesalvo, la “nave” viene girata ed entrata in chiesa, come in retromarcia. I fedeli, anch’essi scalzi, che hanno seguito la processione, si riversano attorno alla cancellata della chiesa, che viene chiusa in fretta.

Copyright – Luigi Nicotra. Ogni diritto è riservato all’Autore.

Un’ultima acclamazione dei “Nudi” saluta l’ingresso della Madonna, che intanto viene issata sull’altare maggiore, spoglia degli ori e del prezioso mantello. Ai portatori, stremati e senza fiato, irriconoscibili con le divise intrise di sudore, scolorite e talvolta strappate, vengono offerti vino e mastazzola, sul cui dorso è impresso il monogramma “W M”, cioè “Viva Maria”.

I mastazzola sono caratteristici biscotti duri, di forma slargata, impastati con il miele e il loro peso è di circa 250 grammi; inoltre viene utilizzata una speciale farina (majorca), pregiata qualità, molto nota nelle zone della Sicilia centrale. Anche ai partecipanti delle “Cerealia” venivano distribuiti dolci votivi simili ai mastazzola, perché a base di farina e miele di favo. Con l’ultima fragorosa e assordante “botta du maschi” hanno fine le manifestazioni folcloriche che hanno solennizzato la festa della Patrona.

 

La festa della Patrona di Enna – by Rino Realmuto

Il 2 luglio è il giorno centrale della festa della Patrona, solennizzata, dapprima, con messe in duomo e poi, di pomeriggio, con la processione. Sin dal 2 giugno vengono dedicate in onore della Madonna messe e tridui, con largo intervento di fedeli, non pochi dei quali, specie al mattino per la messa delle 6,30, celebrata in duomo durante il mese di giugno, vengono dalle loro abitazioni a piedi scalzi ed in forma penitenziale.
Questa usanza antichissima viene chiamata in dialetto “u’ priu”, cioè gioia, festa, poiché tutte le campane del duomo suonano a distesa prima della messa. Mentre si svolge la messa mattutina del 2 luglio, a Montesalvo vengono sparate 101 salve di mortaretti. Poi le sacre funzioni si susseguono senza interruzioni.
Alle 10,30 un solenne pontificale celebrato dal vescovo della diocesi di Piazza Armerina (da cui dipende Enna) alla presenza delle maggiori autorità civili e militari locali.
Sulle scale dell’ingresso principale della chiesa, la banda municipale, che ha già percorso le vie principali della città suonando marcette, intona ad intervalli della musica che rispecchia inconfondibilmente quest’aria di festa. Subito dopo l’ultima messa, viene allestito il grande fercolo sul quale verrà portato in processione il simulacro della Madonna.
I confrati di Maria SS. della Visitazione lavorano febbrilmente per montare i “bajardi”, cioè le aste esterne del fercolo, dalla sagoma ovale, in legno stagionato, irrobustite all’interno con ferro e rivestite in pelle. La loro fattura risale al 1891. Caratteristici sono i numeri progressivi stampigliati a fuoco sulla parte laterale dei “bajardi”.
Essi determinano il posto di spalla, cioè lo spazio che viene occupato dai confrati portatori, tramandato da padre in figlio per intere generazioni. I posti numerati sono in tutto 124: da 1 a 100 all’esterno, dal 101al 102 agli anelli esterni e da 113 a 124 nelle traversine interne. Quindi, i portatori dovrebbero essere 50 per lato, 3 per anello esterno e 3 per traversina, ma ogni anno sono sempre di più.

La numerazione è contemplata specificatamente nello statuto originale della confraternita. I posti più impegnativi, che richiedono maggiori sforzi fisici per i portatori, sono i dodici per lato, sotto il cassone della “nave d’oro”. La vestizione del simulacro della Madonna viene completata nel primo pomeriggio, alla presenza di poche persone; infatti le porte esterne del duomo sono chiuse e l’accesso in chiesa è sorvegliato dalla forza pubblica.
La statua della patrona viene a poco a poco ricoperta dai cosiddetti fasciuna, stoffe in panno rosso nelle quali sono cuciti innumerevoli monili d’oro, collari, anelli, orecchini, bracciali, che i fedeli di tutti i tempi hanno donato come ex voto e che ricoprono interamente la Madonna.
Infine, sul capo della statua, viene posta la corona d’oro, inestimabile gioiello di pregiata oreficeria, espressione del raffinato livello artistico dell’artigianato siciliano dell’epoca. Questa fu cesellata nel 1652 dagli orafi palermitani Leonardo Montalbano e Michele Castellani, ed è suddivisa trasversalmente in due sezioni sovrapposte. In quella inferiore sono rappresentati, su equidistanti e artistici medaglioni m smalto decorato, la Natività, l’Adorazione dei Magi, lo Sposalizio di Maria, l’Annunciazione, la Visitazione a S. Elisabetta e la Resurrezione di Gesù.
Nella parte superiore vi sono delle effigi di angeli disposti tutt’intorno. La corona è tempestata di gemme e pietre preziose, tra le quali fanno spicco i rubini, i granati, gli smeraldi ed un’infinità di brillanti che avvolgono come in una nuvoletta lo intero gioiello. Verso le 17 la chiesa viene aperta ai fedeli, che così possono ammirare il grande fercolo della Madonna, in dialetto vara, chiamato “nave d’oro” poiché è finemente laminato in oro zecchino.
La “Nave d’oro” fu intagliata nel 1590 dallo scultore Scipione di Guido che dipinse anche la struttura portante centrale con degli splendidi colori dai contrasti policromi. Nel 1600 la “vara” fu ulteriormente restaurata ed in un primo momento la si voleva rifare in argento, tanto che fu fatto venire da Palermo un argentiere, tale Michelangelo Merendino, il quale realizzò il primo angelo.
Poiché la “Maramma” non era rimasta soddisfatta di tale fattura, l’argentiere Sebastiano Lancello, anch’egli palermitano, eseguì un secondo angelo in argento, nel 1667. La evidente diversità fra i due angeli dissuase gli amministratori dei beni del duomo a proseguire con questo genere di lavoro. Solamente nel 1732 il fercolo ebbe un restauro più sistematico, che fu affidato all’intagliatore Paolo Gu glielmaci e all’indoratore Gregario Grimaldi. Infine, nel 1957, il maestro Fedele di Catania restaurò ancora una volta la “nave d’oro”.
La vara della Madonna ha una forma rettangolare; per ciascuno dei due lati maggiori vi sono tre grandi angeli dalle ali spiegate che sorreggono, a guisa di cariatidi, due semiarchi, posti su un capitello in stile ionico retto dalla loro testa, che congiungono il tetto. Questo è smaltato all’interno in celeste, mentre all’esterno è laminato in oro. Dall’alto dei semiarchi laterali, e dagli archi anteriore e posteriore, pendono artistici festoni e pennacchi. Il tetto esterno è sormontato da una edicola esagonale finestrata sulla quale c’è Gesù risorto che regge un piccolo stendardo. Sulla sommità degli archi e dei semiarchi sono posti degli angioletti che suonano vari strumenti musicali.
Al centro del tetto interno vi è come una grande stella dai raggi marcati e da essa si proietta verso il basso l’effige di Dio Padre e la colomba dello Spirito Santo, che sembrano adagiati su una nuvoletta in rilievo d’oro zecchino. Nelle navate laterali della chiesa vi sono i simulacri di S. Giuseppe e S. Michele che precederanno nella processione la “nave d’oro”.
Intanto cominciano ad arrivare i primi “Nudi”. Alle 19 la grande processione comincia a muovere dalla chiesa madre. Apre la sfilata un grandioso stendardo sorretto da abili uomini che compiono caratteristiche evoluzioni, degne dei più famosi equilibristi. Infatti, riescono a percorrere diverse decine di metri, poggiando l’estremità inferiore dello stendardo sulle punte delle dita o sulla fronte, oppure addiritura sul naso. Moltissimi sono i bambini con l’abito della prima comunione, seguiti da gruppi di donne che compiono il consueto viaggio a piedi scalzi, per penitenza. Le confraternite della città sono rappresentate con le bandiere : i confrati indossano gli antichi costumi spagnoli, con le mantellette multicolori e i cappucci a visiera alzata.
L’ordine delle precedenze è uguale a quello della processione del Venerdì Santo; non partecipa la rappresentanza dell’arciconfraternita delle Anime Sante del Purgatorio, che interviene solamente alle processioni della Settimana Santa, mentre la bandiera della confraternita di Maria SS. della Visitazione precede la “nave d’oro”. Alle confraternite seguono i simulacri di S. Michele Arcangelo e S. Giuseppe, portati a spalla dai giovani confrati di Maria SS. della Visitazione, che compiono il noviziato, aspirando di portare negli anni successivi la vara del la Patrona.
La grande insegna dello Spirito Santo, sorretta dal rettore di questa confraternita, è interposta fra le statue dei due santi. Non appena questa parte di processione ha iniziato a sfilare dalla chiesa madre, è la volta della “nave d’oro”, cui, prima di muovere dalla navata centrale, vengono tributate acclamazioni dai “Nudi” che recitano in ginocchio una breve preghiera, seguiti da invocazioni dialettali che terminano con il corale “Viva Mari”.
Mentre la vara si affaccia sul portale centrale del duomo, nella adiacente piazza Mazzini vengono sparate assordanti salve di mortaio che sembrano un autentico bombardamento, fragoroso e prolungato, tra lo stormire a festa di tutte le campane delle chiese cittadine, quasi ad esprimere un saluto alla Patrona, all’inizio della sua processione. Allo sventolio dei fazzoletti bianchi che i portatori del la “nave d’oro” tengono in mano, un po’ per asciugare i copiosi sudori che da lì a poco verseranno, un po’ per avvolgere le rudi corde che legano ai “bajardi” per consentire una presa più sicura, la processione muove dalle scale del duomo.
La via Roma, separata da due grandi ali di folla reverente al passaggio della processione, è sfarzosamente illuminata da archi di lampade multicolori, che congiungono la parte alta dei palazzi. I confrati portatori procedono a piedi nudi e vederli nel loro incedere stentato e sbilenco a causa delle diverse stature, sotto il gravoso peso della vara, infonde un senso di commozione.
Infatti i posti numerati, essendo stati assegnati tanti secoli fa ai loro antenati e poi tramandati per decine di ge-nerazioni, non permettono ai portatori di disporsi secondo un graduale ordine di altezza, per cui capita che due confrati di statura inferiore alla media siano collocati allato ad un confrate più alto e viceversa.
I portatori indossano i caratteristici camici a sacco, formati dalla vistina legata alla vita e dalla cammisa a guisa di casacca, i cui bordi inferiori e superiori sono ornati con pregevoli ricami e merletti confezionati al tombolo o all’uncinetto. Sulla spalla esterna, dove non poggia il “bajardo”, c’è una sorta di grande fazzoletto triangolare di colore celeste, annodato sotto l’ascella opposta e uno stretto scapolare di nastro, anch’esso celeste, che termina con un’effige rettangolare dal bordo a frangetta dorata, su cui è ricama to il monogramma di Maria tra i fiori e ramoscelli.
Il rettore della confraternita di Maria SS. della Visitazione precede la “nave d’oro” insieme ai componenti del consiglio di amministrazione. Anch’essi sono a piedi scalzi ed indossano la mantelletta di raso celeste recante a sinistra l’effige ricamata dalla Patrona. Quando viene appiccato il fuoco alle micce dei mortaretti, la “nave” viene fermata e non riprende il suo percorso se prima non si ode l’inconfondibile ultima esplosione, la più fragorosa, chiamata “’a botta du masciu”.
Attraversata la via Roma si giunge in via Mercato, dove la processione si immette in un angusto budello, in cui riesce a passare a malapena la “nave d’oro”. Questa, addirittura, viene tolta di spalla e portata dai “Nudi” quasi raso terra, sorretta dalle corde saldamente ancorate ai “bajardi”. E’ una discesa snervante e sfiancante, e al tempo stesso la più spettacolare. Questa via, chiamata “’a calata da Abbatiedda”, è lastricata con basole levigate di pietra lavica e spesso i piedi scalzi dei portatori vi scivolano. Un breve tratto percorso lentamente ed ecco uno dei punti più difficili : la curva che immette nel cosiddetto “chianu de’ prucini”. La via Mercato raggruppa in un unico quartiere diverse piccole frazioni contigue che vengono indicate con antichi toponimi. Oltre alle già cennate “Abbatiedda” e “chianu de’ prucini”, esistono tutt’oggi le denominazioni originarie di questi luoghi.
La prima è la cosiddetta “Mola”, dove anticamente esisteva il maggiore mulino di Castrogiovanni, che si affaccia sulla sottostante via Passione; poi c’è la zona di S. Matteo, occupata nel secolo XVI dagli esuli di Fundrò, Gatta e Rossomanno, che, avendo appoggiato nelle lotte feudali contro re Martino I le famiglie Scabro degli Uberti, Ventimiglia e Chiaramonte, ebbero confiscate le loro terre di origine. Infine il famoso “passu da Madonna” che s’innesta immediatamente dopo con “’a purtedda du Rizzu”: il punto cruciale e più impegnativo, dove spesso le forze dei portatori cominciano a venir meno. Pochi strattoni decisi e una rincorsa per via Montesalvo.
Ultima curva importante, quella situata nel “chianu di S. Vastianu”, che immette nell’ultima salita che conduce direttamente a Montesalvo, nella cui chiesa si conclude la processione. Le ultime centinaia di metri che separano il tratto di strada dall’agognata meta sono le più tormentate e vengono percorse dai portatori un po’ di corsa, un po’ arrancando a malapena, tanta è la stanchezza degli uomini. Nei loro volti si legge inconfondibilmente la fatica, il dolore fisico, la prostrazione: maschere di sudore, con gli occhi arrossati e l’espressione sconvolta, emergono allineate l’una dopo l’altra.
Piazza Europa e la zona adiacente il mercato ortofrutticolo sono stracolme di persone : pare che tutta la popolazione si sia assiepata qui per vedere passare la vara della Madonna. Mentre il sole tramonta all’orizzonte e solo pochi metri separano dalla chiesa di Montesalvo, l’immensa folla sembra aprirsi attorno alla vara. Giunti sulla sommità di Montesalvo, la “nave” viene girata ed entrata in chiesa, come in retromarcia. I fedeli, anch’essi scalzi, che hanno seguito la processione, si riversano attorno alla cancellata della chiesa, che viene chiusa in fretta.
Un’ultima acclamazione dei “Nudi” saluta l’ingresso della Madonna, che intanto viene issata sull’altare maggiore, spoglia degli ori e del prezioso mantello. Ai portatori, stremati e senza fiato, irriconoscibili con le divise intrise di sudore, scolorite e talvolta strappate, vengono offerti vino e mastazzola, sul cui dorso è impresso il monogramma “W M”, cioè “Viva Maria”.
I mastazzola sono caratteristici biscotti duri, di forma slargata, impastati con il miele e il loro peso è di circa 250 grammi; inoltre viene utilizzata una speciale farina (majorca), pregiata qualità, molto nota nelle zone della Sicilia centrale. Anche ai partecipanti delle “Cerealia” venivano distribuiti dolci votivi simili ai mastazzola, perché a base di farina e miele di favo. Con l’ultima fragorosa e assordante “botta du maschi” hanno fine le manifestazioni folcloriche che hanno solennizzato la festa della Patrona.

 

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Solenne apertura del simulacro della Madonna della Visitazione 29 giugno 2016

La Patrona di Enna arriva all’eremo di Montesalvo

Ritorno al Duomo della Patrona di Enna (2015)

’Na Madonna bedda bedda
’Na Madonna
bedda bedda
tutta luci e gran splenduri
a vulevanu l’Ennisi
a Regina dû paisi
a Patruna di li cori
e di tutta la città
E accussì u sei gennaiu
milliquattrucentududici
ca era ’mmernu
friddu e jelu
di Catania pi Venezia
cincu Ennisi
s’imbarcaru
E viaggiannu mari mari
si fermaru pi pregari
prima a Taranto e poi a Bari
li duj Santi protettura
s. Cataldo e s. Nicola
d’aiutarli ne ’sta ’mprisa
Dopu misi d’acqua e ventuscura agghiorna agghiorna scura
mari e celu celu e mari
finalmente su’ a Venezia
unni artisti di lu lignu
cu li manu e cu li attrizzi
fannu duci Madunnuzzi
di rarissimi biddizzi
’Na Madonna c’un Bamminu
attirò ddu occhiu finu
di Luigi Catalanu
ca Cci vitti nâ facciuzza
e ne l’occhi comu gigli
tantu Amuri e tinirizza
pâ città e pi li figli
E partìu a Madunnuzza
nte ’na cascia pi Catania
tutta dintra rivistuta
di damascu celestinu
E li cincu personaggi
si nni tornanu ’nSicilia
cu carrozzi e cu cavaddi
’Na gran timpesta
squarta lu velieru
c’a piccu si strafunna
ne lu mari
a cassa ’i lignu
si minti a galleggiari
salva a Messina
’n ’onda a fa arrivari
Marinari l’attruvaru
’ncapu a rina
e un sapennu socchi era
’ne na casa la pusaru
ddà vicinu a la marina
Ma miraculi faceva
dda Madonna ddà ’mmucciata
e accussi li Missinisi
cuminciaru a festeggiarLa
A Madonna bedda bedda
tutta Enna l’aspittava
ma a Messina si fermò
e a Enna un ci arrivò
Nun si sapi cumu fu
e a notizia fu purtata
’Na gran fudda di persuni
si nni partunu a pigliarLa
’Ncapu un carru
pianu pianu
noscia Matri cû Bamminu
veni misa a ripusari
e juvenchi bianchi bianchi
l’accumincianu a tirari
Dopu jorna di caminu
eccu arriva ê pedi ’i Enna
la celeste prucissioni
Genti e genti scinni a valli
i cchiù megliu dâ città
pi purtari ’ncapu i spaddi
ne ’na vara la Matruzza
’nzina a So’ santa casuzza
Ma a vara ’i nuddu
si fa arriminari
ca puru era piccidduzza
nun ci pônu né li vrazza
né li forzi di presenti
comu un chiummu addivintò
e ’ntâ terra si ’nchiuvò
Era u ventinovi ’i giugnu
ca lu cavudu si mureva
‘Nturnu ’nturnu nê campagni
tanti e tanti mititura
c’attaccavanu li gregni
tutti scazi e menzi nudi
sulu un morsu ’i tila biancu
’nturciuniatu ne lu sciancu
vannu a vidiri cchi fù
ca si senti un vuciulìu
di quarcosa ca nun va
Senza mancu faticari
’ncapu i spaddi hannu a vara
e a Madonna bedda bedda
si fa comu farfalledda
Cchi felicità cchi gioia
tutta a genti batti i manu
a la noscia Matri bedda
c’arrivava di luntanu
Jorna e jorna di gran festa
su’ pi Tia Santa Maria
e u duj Lugliu
’mprucissioni
ne ’na vara tutta d’oru
cu li nudi ca Ti portanu
fai la To’ visitazioni
â cuscina Elisabetta
e a santu Zaccarìa
ca T’aspettanu festanti
a la chiesa ’i Muntisalvu
cu la banna in allegria
Accussì si cunta e cunta
di seicentu anni a ccà
di ddu tempu ’nzina a ora
di nannu ’npatri ’nfigliu
e pi tutta l’eternità
di ’sta Madunnuzza bedda
tutta luci e gran splenduri
ca la vosiru l’Ennisi
a Regina dû paisi
a patruna di li cori
e di tutta la città
rilucenti e tutta Amuri
Geppina Macaluso

E la Navi d’oru va… Centu corpa di cannuna arriviglianu l’Ennisi propriu oggi u dui dû misi si festeggia la Patruna Madunnuzza Matri ranni quanta fudda pi la via quantugenti a pedi ’nterra câ preghiera Ti ringrazia p’un miraculu ’na grazia supplicati e ricivuti pi ’na sufferenza amara dâ persuna c’hai cchiù cara quantu braccialetti e aneddi appuntati nâ vistina di ’sta Matri ’sta Bammina di ’sta Stidda e occhi beddi E la Navi d’oru va ’ncapu i spaddi traspurtata di li Nudi ’nvesti bianca di li banni accumpagnata san Micheli e san Giuseppi li stinnardi azzurri e bianchi li carusi e i virgineddi li rusarî e a litania a lu gridu Viva Maria pi li strati angusti e stritti tapezzati ’i finisciuna chini di coperti bianchi di merlettu oppuri ’i sita d’unni partunu a cannisci rosi e sciuri ’mprofumati chiovi amuri ’ncapu a vara di la nostra Matri cara ntê vaneddi li mascuna palloncini colorati picciriddi ’mbrazza ê matri Un diadema tuttu d’oru di smiraldi di rubini di turchisi acquimarini a timpesta di brillanti rilucenti sfaviddanti cu lu suli i stiddi a luna pari fatta ’sta curuna T’incurnicia a facci amata si a Regina dî regini Matri nostra ’mmaculata E la Navi d’oru va pi li strati ’i ’stu paisi pi Tia Matri di l’Ennisi tutta ’nfesta è la città E chiancennu Ti pregamu Tu ni guardi e ni surridi ni riinchi u cori ’i fidi di ducizza e d’umiltà Ne lu celu li palummi fannu voli d’allegria disignannu un cori ranni lu To’ cori o Maria
Geppina Macaluso – poesia tratta da “Comu acqua di surgiva”


2 luglio – festa della patrona di Enna Madonna della Visitazione
di Isabella Giamo (poesia menzionata al premio letterario ‘De Simone’ di Villarosa, edizione 2002)

Felici fragranze di fiori in festa,
esotiche essenze senza tempo,
estatiche atmosfere: e ricordare…
Grida di cori, di colori: d’oro,
di bianco e celeste: di ogni veste…
come il sole, il cielo e le coperte esposte,
mosaici di luci vanno ai cuori
e voci che placano i respiri,
e va, nel dolce Luglio di Maria,
tanta fede mista ad allegria.
Per ogni vicolo, per ogni via…
…stendardi, angioletti, sarbiate…
…mille sono i passi e mille i nudi,
calpestati, mischiati alla folla dei confrati,
scanditi i canti da donne votate
e melodie pure: come l’incenso che
tra le nere basole e le salite,
tra le discese anguste ed affollate,
s’insinua negli occhi umidi a tanta
Bellezza: è arrivata… è Lei…
“… Evviva ‘a Reggina di l’Angeli!”
“… Evviva Marì!”



Foto di Luigi Nicotra su preparazione pre-apertura cappella simulacro MadonnaEnna Patrona Madonna visitazione pre apertura (5)Enna Patrona Madonna visitazione pre apertura (3)
Enna Patrona Madonna visitazione pre apertura

Enna Patrona Madonna visitazione pre apertura (4)Dalla fine della II guerra mondiale, dall’8 al 12 settembre, la Madonna della Visitazione esposta nella Cappella dei Marmi
Enna. Ogni anno, dall’8 al 12 settembre, a ricordo della fine della seconda guerra mondiale (1940-43), la Madonna della Visitazione viene esposta nella Cappella dei Marmi al Duomo. Fu per decisione congiunta dell’allora Ciantro della Chiesa Madre, Angelo Termine, del sindaco della città, Giuseppe Ferrara, appena nominato primo cittadino dall’amministrazione militare alleata d’occupazione (Amcot), del Vescovo della diocesi, mons. Antonino Catarella e del rettore della Confraternita degli Ignudi che il 12 settembre del ’43 la Madonna della Visitazione fu portata in processione dopo l’annuncio dell’armistizio fatto dal generale Badoglio con le famose parole trasmesse alla radio: “La guerra è finita…”. A quella eccezionale processione parteciparono migliaia di fedeli. Le loro preghiere di ringraziamento verso la Madre Celeste per la fine del secondo conflitto mondiale si levarono al cielo in quel caldo pomeriggio settembrino. In verità la guerra continuò su più fronti per ancora diciotto mesi, sino alla liberazione del 25 aprile 1945. Chi è avanti negli anni ricorda ancora quell’evento, svoltosi con toccanti momenti di pathos. Seguirono il simulacro della Madonna molte donne, mogli e figlie, sorelle e fidanzate dei combattenti che in quel momento si trovavano al fronte, tutte dietro la Vara, a piedi nudi e con i capelli sciolti sulle spalle, per chiedere alla Madonna la grazia per il ritorno a casa sani e salvi dei propri uomini, sparsi nei vari campi di battaglia in Italia, in Africa, in Russia, nei Balcani…o fatti prigionieri e rinchiusi nei campi di concentramento. Al grido “Chi vuole Grazie, ricorra a Maria”, tutto il popolo ennese si unì all’invocazione dei portatori del fercolo. Quel giorno di sessantotto anni fa, lungo la salita di Monte Salvo, prima di giungere all’eremo dei frati francescani, un buon numero di soldati, accorsi dalla vicina caserma “La Paglia” del Distretto Militare, aiutò i portatori a superare quell’ultimo impegnativo tratto di strada in salita, anch’essi scalzi indossando una camicia bianca.

Quell’aiuto fu provvidenziale perché quel 12 settembre del ’43 gli Ignudi erano veramente pochi, per lo più ragazzi, sotto i diciotto anni, o anziani più o meno idonei a quello sforzo fisico. La stragrande maggioranza degli aventi diritto alla spalla della Madonna, infatti, era impegnata nelle operazioni belliche. Al rientro al Duomo, otto giorni dopo, non venne accompagnata neppure dalla banda cittadina. Prima d’allora, una sola data nella storia dei riti religiosi di Enna è ancora ricordata come un evento altrettanto straordinario. Per ringraziare la Vergine di aver preservato la città e la popolazione dagli effetti devastanti del sisma dell’11 gennaio 1693, che distrusse gran parte del sud-est della Sicilia, il Simulacro della Padrona fu portato in processione. Una processione “Per grazia ricevuta”, come attestato da Padre Giovanni dei Cappuccini nella settecentesca “Historia di Castrogiovanni” e da Paolo Vetri nella “Storia di Enna” scritta nella seconda metà dell’Ottocento. Il popolo ennese, in quell’occasione, volle ringraziare la Vergine per non aver subìto gravi danni materiali e per non aver avuto vittime, come nel catanese e nel ragusano dove i morti si contarono a migliaia. Da quell’anno, a ricordo del terremoto del 1693, dal 16 dicembre all’11 gennaio, la Madonna è esposta nell’altare maggiore del Duomo, mentre dall’8 al 12 settembre viene aperta, ma rimane esposta nella Cappella dei Marmi. Forse altre volte, nei secoli scorsi, la Patrona è stata portata in processione in occasioni di eventi straordinari, quali calamità naturali o pestilenze, ma nessuna traccia risulta nella storiografia locale.

Enna-Cappella-MadonnaLa preziosa cappella marmorea della Madonna della Visitazione è l’ultima grande opera eseguita nel Duomo di Enna. E’ opera dello scultore e architetto catanese Andrea Amato, vissuto nella prima metà XVIII secolo. L’artista ricevette il 13 luglio 1737 “in conto di detti lavori la somma di onze trecento”. Fu col ricavato della vendita del feudo di Floristella che gli amministratori della Matrice, la cosiddetta “Maremma”, fecero rivestire di marmi pregiati la cappella dedicata alla Madonna chiamata, appunto, “dei marmi”. E’ quanto si apprende da notizie riferite da storici locali e da documenti d’epoca. Cinque anni dopo, nel 1742, quando Amato morì a Enna, lasciò in eredità alla chiesa Madre tutte le somme a lui dovute, con l’obbligo di celebrare messe in suo suffragio. L’opera fu completata dal maestro catanese Domenico Bevilacqua, valente allievo e nipote dell’Amato che si avvalse della collaborazione di “altri capaci marmorari catanesi”, fra cui Francesco Battaglia, che fu pure valente architetto.
enna-madonna-cappella-marmiLa cappella fu completata nell’agosto 1753. “La profusione di marmi mischi, il movimento architettonico delle parti, l’armonica inserzione di sculture, come i grandi putti librati fra la nicchia e le vistose colonne tortili, i larghi cartigli che si stagliano fra aggettanti e movimentate cornici tappezzandone i muri ai fianchi, conferiscono alla cappella una grande sfarzosità, non disgiunta da una serena compostezza”. Così la descrive Antonio Ragona nella monografia “Il Duomo di Enna”, pubblicata nel 1988, e aggiunge: “essa s’impone all’ammirazione specie sapendola germinata in un’epoca in cui s’indulgeva facilmente al superfluo e al sopraccarico”. La porticina che chiude la nicchia dove è custodita la Madonna, “non è altro che un quadro dipinto da Domenico Basile e attribuito sino a qualche anno fa a Filippo Paladini”. Rappresenta la Vergine che saluta 
Elisabetta nella cosiddetta “Visitazione”. Il pavimento marmoreo della chiesa, completato intorno al 1781, è stato l’ultima significativa opera eseguita nel tempio della cristianità ennese. Esso “segna quasi la continuazione dell’opera marmorea della cappella della Madonna e s’intona mirabilmente, nella sua semplicità e scelta di colori, a tutto l’insieme architettonico dell’edificio sacro dedicato alla Madonna della visitazione, patrona della città”.

Il culto pagano. La mitologia latina vuole che Cerere, dea delle messi, abbia abitato le pendici di Enna e che qui abbia donate ai mortali come nutrimento il pane, ricavato dalle spighe di frumento. La dea, assunte sembianze umane, insegnò i primi rudimenti della semina, della coltivazione e della mietitura del grano, che così sostituì le bacche e i frutti selvatici di cui si nutrivano gli uomini nella notte dei tempi. Gli abitanti di Enna, volendo ringraziare Cerere apportatrice di questo nuovo alimento, eressero in suo onore un tempio famoso in tutta la Magna Grecia. Ovidio, nel quinto libro delle Metamorfosi, narra questi eventi.
Anni fa, furono riportate alla luce varie medagliette in bronzo argento e oro, raffiguranti sul diritto Cerere e sul rovescio una spiga di grano. Furono pure rinvenute monete coniate durante le tirannidi siracusane. Questi reperti sono custoditi nel museo Alessi di Enna. Gelone, tiranno di Siracusa, donò al tempio ennese una statua della dea in marmo, mentre ne esistevano già altre due in bronzo. Queste statue furono deturpate o asportate dai soldati di Verre, durante la sua prefettura in Sicilia. A tale proposito, Marco Tullio Cicerone così si esprime nel VI libro In Verrem: “Hoc iste e signo Cereris avellendum exportandumque curavit. Ante aedem Cereris in aperto ac propatulo loco signa duo sunt”. Cerere, sempre secondo la mitologia, si mostrò agli uomini provvida di ogni bene sino a quando Plutone, dio degli Inferi, rapì Proserpina, unica figlia della dea. Il ratto fu compiuto nei pressi di Pergusa: il dio degli Inferi uscì da una spelonca e a viva forza fece salire Proserpina nel suo carro infuocato. Cerere, disperata ed afflitta, pianse tanto da formare con le sue lacrime il lago ancora oggi esistente. Fu allora che Cerere volle vendicarsi di tutti gli uomini, incendiando e rovinando sistematicamente i loro raccolti (sino a quando, come si legge nei Frammenti Orfici, non venne dall’Attica il buon Trittolemo, gratificato da Demetra, a diffondere nuovamente per il mondo le colture granarie). Il culto di Cerere era pubblico. Chiunque poteva entrare nel tempio per effettuare i sacrifici che venivano chiamati “Talisi”. Erano però vietati quelli in cui s’immolavano vite umane. Similmente era praticato il culto di Proserpina, che veniva festeggiata nel periodo della semina, mentre alla madre venivano dedicate le “Cerealia” durante il periodo del raccolto. Le “Cerealia” duravano dieci giorni, nei quali venivano organizzate processioni che culminavano con l'”Antesforia”. I fanciulli vestivano abiti bianchi con ghirlande di fiori sul capo. La statua di Cerere era posta su un carro trainato da bianche giovenche; la dea appariva con le vesti di contadina, con una corona di spighe in testa, una cesta sotto il braccio sinistro ed una nappa a destra.
I partecipanti alle processioni erano soliti recitare frasi oscene, affinchè Cerere, afflitta per il ratto della figlia, si rallegrasse e si mostrasse più provvida per il raccolto dell’anno successivo. Successivamente Cerere fu assunta come simbolo di fecondità; infatti, oltre alle “Cerealia”, si tenevano le “Tesmoforie”, nelle quali venivano distribuiti dolci raffiguranti il sacro millo. Nelle “Cerealia”, le processioni si tenevano nei campi: il raccolto veniva posto sull’aia, poi si ornava con foglie di quercia. Il sacerdote cantava le lodi a Cerere e sacrificava su un’ara la vittima destinata. Questa veniva cosparsa di latte e vino mielate e poi uccisa. Compiuto il rito, il sacerdote impugnava una falce, come auspicio per la stagione della mietitura.

Origini del Cristianesimo ad Enna
. Secondo i più autorevoli storici ennesi, la prima comunità cristiana della città sorse intorno al II secolo dopo Cristo, ad opera di S. Pancrazio. Questi predicava ai “fullones” che coltivavano il lino e la canapa lungo le rive del torrente Torcicoda, presso la località Valverde. Qui sorgeva un tempietto dedicato a Cerere, successivamente distrutto dai neocristiani, i quali addirittura bruciarono in un falò il simulacro ligneo della divinità pagana. Per tale motivo ancora oggi la parte superiore del quartiere di Valverde viene ancora chiamata “Cirasa”, cioè Cerere arsa, bruciata.

La Madonna di Valverde fu la prima Patrona della città, infatti l’omonima confraternita si fregia tutt’oggi del civico stemma turrito che sormonta l’insegna del rettore. Ad Enna, allora Castrum Henna, nonostante il propagarsi della fede cristiana, persistevano delle reminiscenze pagane. Specialmente nei quartieri più alti, quelli adiacenti il castello di Lombardia e la Rocca di Cerere, si tenevano delle manifestazioni alle quali partecipavano un gran numero di persone e che spesso si tramutavano in orge e baccanali.
Quasi tutto il periodo medioevale fu caratterizzato dall’instaurarsi di usi e costumi arabi. Infatti, sotto la dominazione mussulmana, che va dall’851 al 1081, la città fu sede di una moschea che sorgeva con il suo alto minareto dove adesso c’è la chiesa di S. Michele, in piazza Mazzini. Benché la religione mussulmana non avesse avuto il sopravvento su quella cristiana, diversi strati della popolazione, si convertiono ad Allah, persistendovi ostinatamente anche sotto la dominazione normanna.
Furono gli Svevi a contribuire attivamente al ritorno della fede cristiana a Castrogiovanni, così chiamata volgarmente la città dal toponimo arabo Castr Yam. In questo periodo e precisamente nel 1261, ad opera dei frati Basiliani, che nell’800 erano fuggiti in Calabria, in seguito alle persecuzioni degli arabi, sorse la prima associazione cristiana di lavoratori ennesi, denominata “Confraternita del SS. Salvatore”.
Intanto la nuova Patrona della città era diventata l’Assunta, venerata presso la maggiore chiesa allora esistente e chiamata appunto “S. Maria Majuri”, il cui perimetro fu utilizzato successivamente per la costruzione dell’attuale duomo.

La costruzione del Duomo.
Sotto la dominazione aragonese si delineò in forma più accentuata la definitiva ascesa della religione cristiana, che finì per prevalere sulle altre. Nel 1307, sotto l’egida della regina Eleonora, moglie di Federico II di Aragona, si iniziò la costruzione del duomo, che fu intitolato alla Madonna. Nel secolo XV, la municipalità di Castrogiovanni pensò di solennizzare la festività patronale il 2 luglio, giorno in cui la Chiesa, sin dal 1200, festeggiava la Visitazione di Maria SS. a Santa Elisabetta. Questa data non fu scelta a caso, ma indubbiamente in considerazione del fatto che proprio in questo periodo si celebravano le “Cerealia”. Quindi, la Madonna della Visitazione non solo fu scelta come Patrona perché fungesse da tramite tra gli uomini e Dio, ma soprattutto perché fosse proprio la Madre di Cristo a sostituire degnamente Cerere, il cui culto pagano era stato molto praticato. Da queste sommarie notizie storiche si desume come la città di Enna abbia avuto, sin dai tempi più remoti, una particolare venerazione per la Madonna, alla quale vennero dedicate successivamente sotto vari titoli oltre 30 chiese delle 137 esistenti nel XVII secolo.

Gli ennesi hanno sempre dedicato un culto particolare alla Madonna. Allorquando si manifestavano calamità naturali, quali terremoti, nubifragi, siccità od epidemie, gran parte degli abitanti si recavano in chiesa per pregare e chiedere protezione alla Vergine. Nel 1323, in seguito ad una terribile pestilenza, gli ennesi, compresi gli esuli di Fundrò, Gatta e Rossomanno, che abitavano i quartieri di Fundrisi, Pisciotto e S. Matteo, in forma penitenziale si portarono in duomo per invocare Maria SS. della Visitazione.
L’11 gennaio 1693, un terremoto di forte intensità sconvolse la Sicilia, distruggendo città e villaggi. Castrogiovanni fu una delle poche a subire limitati danni e poche vittime, come asseriscono le cronache del tempo, le quali attribuiscono la catastrofe alle continue e violente eruzioni dell’Etna.
Volendo ringraziare la Vergine per lo scampato pericolo, la collegiata Chiesa Madre stabilì di solennizzare quel giorno e da allora, tutti gli anni,l’11 gennaio, il simulacro della Madonna della Visitazione viene esposto, sull’altare maggiore del duomo, alla venerazione dei fedeli.
Nel 1741 ci fu una disastrosa invasione di cavallette che comparvero nel mese di giugno, devastando i raccolti nelle contrade di Geracello, Ceraci, Bubutello, Piano del Tordo, Carrangiara. Grazie all’intercessione della Patrona, l’invasione di quegli insetti si fermò proprio a Carrangiara. Come riportano i cronisti del tempo, in quell’anno si ebbero particolari festeggiamenti di ringraziamento. L’anno successivo si ebbe una lunga siccità che durò dal dicembre 1742 al 30 novembre 1743. Ne seguì una terribile carestia determinata da fattori climatici avversi, quali venti secchi, giornate afose e notti umide, che stroncarono sul nascere colture in germoglio e frutti in maturazione.


La storia
: Nel XV secolo il patronato della città di Castrogiovanni fu posto sotto la celeste protezione della Madonna della Visitazione. Affinchè la chiesa madre potesse avere una bella statua della Madonna, una deputazione di ennesi, formata da due seniori del Civico Senato, due dignitari della collegiata Chiesa Madre, ed un mastro artigiano, tale Luigi Catalano, oriundo della Spagna, partirono alla volta di Venezia per l’acquisto di un simulacro.

Era il 6 gennaio 1412. Imbarcati a Catania, i delegati attraversarono su una goletta il mare Jonio; giungendo a Taranto, si recarono presso la chiesa di S. Cataldo, dove pregarono al fine di risolvere felicemente la missione. La stessa cosa fecero a Bari presso la basilica di S. Nicola. Dopo circa due mesi di navigazione, la deputazione giunse a Venezia, dove per prima cosa venne depositato l’oro necessario alla spesa presso il “Banco di S. Marco”. Con tanta fiducia e speranza i cinque ennesi si recarono in Campo dei Frari, il caratteristico quartiere della laguna, rinomato centro di artigianale vario, nonché sede delle scuole dei più famosi scultori ed intagliatori in legno, che qui tenevano bottega. Purtroppo una certa delusione mista a rammarico era riservata ai volenterosi rappresentanti ennesi, poiché le statue esposte rappresentavano la Madonna con Gesù Bambino tra le braccia, da venerare quindi sotto altre denominazioni esaltanti la maternità di Maria, mentre nel Vangelo si legge che, allorquando la Madonna si recò a far visita a S Elisabetta, Gesù non era ancora nato, ma solamente concepito. Ma don Luigi Catalano, esperto ebanista che esercitava a Castrogiovanni in una bottega di Plaza Major, meglio nota come “chianu de casi ranni”, era l’unico componente che se ne intendesse quanto bastava per non farsi sfuggire un bellissimo simulacro, esposto nella bottega di mastro Alvise Gennazzin, che attirò la sua attenzione. Quella statua della Vergine presentava una fisionomia dove l’espressione armoniosa del viso, lo sguardo disteso e sereno, il busto nè rigido nè dimesso ma eretto maestosamente, con naturalezza, dava l’impressione di saper racchiudere a prima vista le ansie e le speranze di ogni cuore ed ispirare nobili sentimenti. Il volto rubicondo del Bambino Gesù completava degnamente la plasticità del simulacro, che rispecchiando a tratti lo stile bizantino ed il moderno di qui tempi, infondeva tanta tenerezza.
Dopo aver stipulato il contratto d’acquisto, la pregevole scultura fu posta in una cassa rivestita di tessuto damascato di colore celeste. Sul coperchio furono marcate una “M” ed una “N”, che stavano a significare Maria di Nazareth. Il prezioso carico, sigillato esternamente con liste di ferro, fu imbarcato nelle stive del veliero “Nostra Signora della Salute”, che doveva salpare da Venezia il 25 marzo, con destinazione Barcellona di Spagna, facendo scalo nel porto di Catania. Così, mentre il veliero toglieva gli ormeggi, i commissionari ennesi fecero ritorno via terra, poiché era loro intenzione passare da Roma per essere ricevuti dal Papa, al quale avrebbero chiesto una bolla e particolari indulgenze.

La leggenda:
Il viaggio di ritorno non fu certamente felice ed è così che storia e leggenda si fondono oggi in un dualismo inscindibile, alimentato dalla fantasia popolare e validamente sostenuto dalla tradizione. Il veliero, entrato nel mar Jonio, superato il capo Spartivento, estrema punta meridionale nella costa calabrese, fu investito da una violenta tempesta che lo fece colare a picco. Ritornata la calma, sulle onde del mare galleggiavano i relitti della nave, insieme alla cassa contenente il simulacro della Madonna. Questa, trasportata dalla corrente e sospinta dalla leggera brezza di levante, giunse nel porto di Messina, sulle cui spiagge si arenò e fu raccolta da alcuni marinai che, sconoscendo il prezioso contenuto, la depositarono presso i magazzini del porto. I primi miracoli bastarono a fare accorrere una moltitudine di persone che volevano sapere cosa contenesse quella misteriosa cassa. Quando fu dischiusa, all’apparire della bella statua sacra la meraviglia dei messinesi fu tale che, quasi privilegiati di tanto onore, cominciarono a tributare festeggiamenti e manifestazioni di devozione. Intanto a Castrogiovanni, dopo che la deputazione aveva fatto ritorno, si attendeva con trepidazione l’arrivo del simulacro ed invece giunse la notizia del prodigioso rinvenimento di Messina. Fu allora che una folta rappresentanza di ennesi partì alla volta della città dello Stretto per chiederne la restituzione. I Messinesi dapprima si mostrarono restii, ma alla fine rilasciarono cassa e contenuto ai legittimi proprietari che, posto il simulacro su un carro trainato da bianche giovenche, intrapresero la via del ritorno attraverso la Val Demone.

Il 29 giugno 1412, giunto alle falde di Enna, il carro fu accolto solennemente dalla popolazione rappresentata in ogni ceto sociale. La statua della Madonna fu issata su un fercolo molto rustico ma il gruppo di nobili e di ecclesiastici che si era riservato l’onore di portare a spalle la Madonna sino in duomo, non riuscì a sollevare la bara rivelatasi eccessivamente pesante. Allora accorsero dalle vicine campagne i contadini e gli agricoltori che mietevano e trebbiavano le messi. Questi erano a piedi scalzi e vestivano solamente una sorta di camicia leggera di colore bianco, cinta ai fianchi, che fungendo da perizoma copriva le nudità. Ecco perché ancora oggi i portatori del fercolo della Patrona indossano la cosidetta vistina e vengono chiamati “I Nudi”.
L’improvvisata processione fece il suo ingresso in città attraverso l’entrata meridionale di porta S. Calogero, che successivamente, a ricordo di tale evento, fu chiamata “Porto Salvo”, cioè rifugio di salvezza, in contrapposizione al porto di Messina dove fatalmente si era arenata la cassa con la statua dopo il naufragio. Dal 29 giugno 1413, ogni anno si commemora in questo giorno l’arrivo del simulacro in città, con una so-lenne funzione che si svolge in duomo.

L’antica festa. Per vedere come nei secoli passati si svolgeva questa festa e come Castrogiovanni solennizzava Maria SS. della Visitazione, dobbiamo trasportarci in un’atmosfera remota. La leggenda più verosimile è quella tramandata circa il percorso da adottare per la processione del 2 luglio. Infatti, si racconta che il 30 giugno 1413, per stabilire le strade da percorrere, nella chiesa madre, proprio ai piedi del simulacro della Madonna della Visitazione, furono schiuse alcune gabbie contenenti colombe. Le guardie civiche, le quali erano state scaglionate lungo le vie della città, seguivano con lo sguardo quei volatili, che determinarono così il percorso, sia all’andata che al ritorno .
Circa la fattura del simulacro della Madonna della Visitazione, si narra che lo scultore che la plasmò nel legno era un prete che conduceva la sua vita in odore di santità. Questi, durante la esecuzione del lavoro, si chiuse nel suo laboratorio ed alternava agli intagli penitenze e preghiere alla Madonna. Inoltre sosteneva che la Madonna stessa gli fosse apparsa in visione con le fattezze e le bellezze che egli riprodusse nella statua. Un’altra leggenda che merita di essere ricordata è quella in cui viene menzionato come, l’anno successivo all’arrivo in città della statua da Venezia, i contadini e gli agricoltori acquisirono il diritto di portare a spalla il fercolo della Patrona. Visto che il 29 giugno 1412 erano stati gli unici ad essere riusciti a sollevare il simulacro della Vergine, diventato improvvisamente molto gravoso, i contadini, lieti di tanto onore, assunsero un atteggiamento di gioia e allegria che muoveva a tenera devozione. Molti antichi autori fanno notare come sia evidente l’innesto di questa tradizione religiosa sui rudimenti delle pagane “Cerealia”, che venivano tributate a Cerere, dea delle messi, prima di essere sostituita con l’avvento del cristianesimo.
A tale proposito si riporta quanto dicono alcuni storici e studiosi.
Rocco Pirri afferma che occorre riflettere su tale circostanza, poiché precedentemente era stato praticato il culto a Cerere, ed erano stati tributati a quella divinità pagana gli stessi onori da parte di quanti sconoscevano ancora il messaggio cristiano. Inoltre aggiunge che i “Nudi” non fecero altro che copiare gli stessi costumi e usi (candide vesti e piedi scalzi) come il poeta latino Ovidio riporta nel IV libro dei Fasti.
L’Alberti sostiene che il 2 luglio era lo stesso giorno in cui culminavano le “Cerealia”, in quanto nelle contrade ennesi, situate in zona montana, il grano veniva mietuto in ritardo anziché nel mese di giugno. Quindi i cristiani scelsero quel giorno da dedicare alla Vergine, vera portatrice del celeste pane quale è il divin Figlio fatto uomo.
La festa della Patrona raggiunse una vasta fama intorno al XVII secolo, quando da ogni parte della Sicilia giungevano a Castrogiovanni moltissimi fedeli a piedi e a cavallo, per assistere alla grande processione e per partecipare ad una grande fiera-mercato che coincideva con la festa patronale. Il 1° luglio veniva rievocato l’arrivo del simulacro della Madonna dalla città di Messina. Un carro trionfale veniva portato presso “‘u chianu di S. Vastianu”, facendolo passare per la strada principale chiamata Ferdinandea o strada dei Cavalieri, l’odierna via Roma. Il carro trionfale era suddiviso in tre piani; sul primo c’erano dei musici e cantori, il secondo era pieno di bambini vestiti da angioletti, mentre in cima e era la statua della Madonna. Così come il carro della dea Cerere, delle bianche giovenche trainavano questa sorta di fercolo che poi veniva bruciato nella zona del Monte, dopo che simulacro ed occupanti erano stati fatti scendere da quel gigantesco carro trionfale. Le popolazioni, allo stesso modo dei loro antenati pagani, secondo lo sfavillare delle fiamme pronosticavano lo andamento dell’annata successiva, circa il raccolto dei cam pi. Nel XVIII secolo le feste della Patrona vennero organizzate in modo più mistico e solenne. Infatti il 2 giugno di ogni anno gli araldi e i banditori della Maramma, rendevano pubblico il programma della festa, montando a cavallo e percorrendo così ogni angolo della città, nonché le contrade circostanti. Il 1° luglio un drappello di cavalieri che montavano dei magnifici purosangue, muoveva dalla Plaza Major, “‘u chianu de’ casi ranni”, e si recava presso la chiesa dell’Annunziata, oggi chiesa del Carmine. Lì vi rilevavano il gonfalone della città.
Il 2 luglio partecipavano alla solenne processione il Civico Senato e i Seniori che, in abito curiale procedevano a cavallo. Inoltre, intervenivano con cappa ed ermellino i componenti l’intero capitolo della collegiata Chiesa Madre, i dodici parroci della città, il magistrato, i nobili e la Milizia civica in armi. I sacristi di tutte le chiese circondavano il fercolo tenendo in mano i turiboli accesi, nei quali veniva bruciato l’incenso che profumava l’aria. La “nave” era preceduta dai simulacri di Santi minori, tra i quali quelli di Santa Apollonia, S. Lucia, S. Giuseppe e S. Michele. Molto curioso il simulacro di S. Pasquale, compatrono della città, volgarmente inteso il patrono dei… cornuti, poiché si usava addobbare il suo fercolo con teste mozze di animali con corna.
Nel prologo di un atto rogato nella casa di un massaro di nome Liborio Nicosia, che abitava presso “u passu da Madonna” di via Mercato, si legge che quel giorno, due luglio 1674, la festa della Patrona era stata finanziata dal principe di Assoro, che elargì 3000 scudi per solennizzare la Regina degli Angeli.
Dal 2 giugno al 2 luglio tutte le mattine si sparava una prolungata salva di mortaretti ed inoltre, il giorno della festa, il principe di Assoro fece intervenire alla processione una banda musicale formata da più di 200 tamburi, con tante partite di strumenti musicali diversi. La musica che veniva suonata era di tale intensità che le stradine e i vicoli di Castrogiovanni echeggiavano e rimbombavano a quei suoni festosi. Oltre 100 coreuti precedevano il fercolo della Madonna della Visitazione, mentre una guarnigione di cavalieri, con le uniformi reali, seguivano la processione insieme ad un reggimento di 500 soldati con le bandiere inalberate e con i condottieri nelle loro corazze di gala. Durante le due settimane di sosta a Montesalvo, la Madonna era giornalmente visitata dalle nobili famiglie della città che vi si recavano con le carrozze messe a disposizione dal principe d’Assoro. Nel 1700 la famiglia Candia approntò un nuovo tipo di illuminazione chiamato “piramiti”, per la forma piramidale delle lampade, le quali, venivano poste su mensolette variopinte contenenti grandi bicchieri, in cui veniva fatto bruciare l’olio che illuminava i muri e i davanzali delle case. Le “piramiti”, che restavano accese per più di quattro ore, contenevano grandi bicchieri e tutta Castrogiovanni era illuminata con circa 4.000 di queste lampade. Nel 1725 furono esplosi 100 fulguri da terra, 200 fulguri da canna; 200 fuochi d’aria e più di 5000 sarbe. Verso la fine del XVIII secolo furono stesi dei grandi teloni dipinti ad olio che raffiguravano varie scene della storia di Castrogiovanni e della vita della Madonna. A guisa di arazzi venivano posti nei tratti dove passava la processione della Patrona. Questi teloni erano chiamati “trasparenti” perché venivano collocati, dietro di essi, dei lumi ad olio che di sera lasciavano trasparire le scene dipinte. L’immensa folla che aveva seguito la processione e che aveva assistito ai fuochi d’artificio, fatti esplodere sull’altura di Montesalvo, si recava in Plaza Major, dove assisteva al cosiddetto “deialicu”. Questo consisteva nella esecuzione di un poema articolato in dialoghi parlati e musicati che avevano come argomento la devozione della città di Castrogiovanni verso la Madonna della Visitazione. Ogni anno gli uomini più colti della città componevano dei nuovi poemi che poi venivano eseguiti dagli orchestrali e cantori della cappella musicale del duomo, su un apposito palco addobbato con festoni e drappi rossi. Fra i dialoghi ben conservati nell’archivio della Chiesa Madre, quello composto nel 1808 da Saverio Di Marco per le parole e da Giuseppe Coppola, per la partitura musicale, il quale trattava il ratto di Proserpina ad opera di Plutone, l’affannosa ricerca della madre Cerere e come il cristianesimo mutò questa leggenda pagana con l’istituzione della festa di Maria SS. della Visitazione. Anche il canonico mons. Giuseppe Alessi, studioso e cultore di scienze liberali e politiche, si cimentò nella composizione di questi dialoghi che venivano recitati nelle feste patronali che si svolgevano nel periodo a lui contemporaneo.
Sua Santità Pio IV, con tre bolle, concesse il 15 giugno 1780 delle indulgenze speciali ai fedeli che avessero adempiuto a particolari obblighi in occasione della festività della Madonna della Visitazione. Nel 1797, con solenni cerimonie, il simulacro della Vergine fu incoronato dal Capitolo Vaticano. A ricordo di tale avvenimento furono coniate delle artistiche medaglie d’argento e di bronzo e furono distribuite delle pregevoli ceramiche a forma di piastrella su cui era smaltata con vivaci colori l’effige della Madonna della Visitazione tra due Angeli. Nel quattrocentesimo anniversario dell’arrivo del simulacro a Castrogiovanni, il Capitolo rinnovò la solenne incoronazione. Quel giorno, 2 luglio 1812, il Papa Pio VII celebrò in S. Pietro una speciale Messa avente come intenzione la solennità della Madonna della Visitazione, Patrona di Castrogiovanni. Lo stesso Papa inserì nelle litanie litanie la lode: “Sancta Maria, Patrona Populi Hennensis, ora pro no-bis”.

Il 29 giugno
. Alle ore 19,30, con la chiesa gremita di fedeli, viene aperta la porticina situata in fondo alla navata destra, nella cappella dedicata alla Madonna. Questa cappella è chiamata “dei marmi” perché è riccamente ornata di marmi policromi siciliani; lo stile ricorda molto il barocco, per le ampie e fastose volute. La Maramma, cioè l’amministrazione dei beni patrimoniali del duomo, fece costruire questa cappella alla fine del XVII secolo, con il ricavo della vendita del feudo di Fioristella, dove sorge una delle più importanti miniere zolfifere dell’ennese. La cappella della Madonna, verso la fine del 1500, era stata ricoperta di stucchi con pregevoli pitture e dorature. Però le acque piovane che vennero ad infiltrarsi provocarono non pochi danni, per cui si pensò di abbellire le pareti della cappella con dei marmi che avrebbero costituito una valida intercalazione contro l’umidità. Il progetto di questa costruzione fu affidato all’architetto e scultore cotonose Andrea Amato nel 1736. Questi morì nel 1742 ed il completamento dell’opera fu affidato a Domenico Bevilacqua, che si valse di validi collaboratori, quali Francesco Battaglia, Vincevo Bonaventura, Antonio Bevilacqua, Francesco Torrisi, Paolo Fichera, Tommaso e Vincenzo Viola e Giuseppe Anastasio, i quali portarono a fine l’opera nel 1753. La porticina che socchiude la nicchia, dietro cui c’è il simulacro della Patrona, non è altro che un quadro dipinto da Domenico Basile e attribuito sino a qualche anno fa a Filippo Paladini; rappresenta la Vergine che saluta S.Elisabetta nella cosiddetta Visitazione. Il quadro è verticalmente suddiviso in due ante, rivestite all’interno di tessuto damascato le quali coprono una seconda porticina in lamiera che ha sostituito l’antica porta di legno denominata “delle sette chiavi” poiché sette erano le chiavi che servivano ad aprire la nicchia.

Ogni parte di questa cerimonia è acclamata a gran voce dai “Nudi”, i confrati di Maria SS della Visitazione, i quali si presentano ancor oggi nella loro antica uniforme e a piedi scalzi.
Non appena viene schiusa la nicchia,la statua di Maria appare in tutta la sua bellezza, ricoperta interamente monili d’oro donati come ex voto dai fedeli, con una preziosa corona sul capo riccamente cesellata con ori e smalti, ravvolta in un ampio manto di broccato trapuntato a filigrana d’oro.
Mentre la banda municipale suona sul prònao del duomo, accanto al battistero, i “Nudi” portano a spalla il venerato simulacro, collocato su un piccolo fercolo, molto simile a quello usato quando la statua della Madonna giunse ad Enna nel 1412. La processione che si svolge all’interno del duomo è aperta dalla bandiera della confraternita di Maria SS. della Visitazione, seguita dai confrati anziani e si snoda lungo la navata centrale dove la Madonna viene issata sull’altare maggiore. Lungo la navata centrale, i portatori procedono con il fercolo all’indietro, cioè con il simulacro che volge le spalle all’abside; in tal modo tutti possono vedere frontalmente la statua della Madonna. Giunti sull’altare maggiore, la corona, gli ori ed il mantello vengono tolti e sostituiti con il cosiddetto “corredo giornaliero”, il cui valore è trascurabile rispetto al precedente.
Dopo che la sacra immagine è stata issata su un alto piedistallo, manovrato da una carrucola, il sacerdote, che sin dal 2 giugno ha officiato la messa mattutina, tiene una predica, seguita dalla messa del vespro.

Le Lumine
: Il 3 luglio, festività di S. Primo, compatrono della città di Enna, in duomo viene celebrata una messa solenne di vespro.

La festività del compatrono di Enna, viene ricordata in tono minore. Il perché di questa strana consuetudine è dato dal fatto che gran parte dei fedeli si reca presso la chiesa di Montesalvo, dove il simulacro di Maria SS. della Visitazione resterà solennemente esposto per due domeniche consecutive.
Nel corso di questi quindici giorni, nella chiesa del Monte si ripetono le stesse cerimonie religiose che si erano tenute in duomo, e la sera, sino a tardi, si susseguono pellegrinaggi alla Madonna da parte dei fedeli. In giorni prestabiliti, si svolgono pellegrinaggi organizzati dalle varie categorie sociali. Queste processioni, chiamate in dialetto “lumine”, venivano accompagnate dalla banda musicale, che, partendo da una delle due piazze principali del centro cittadino, percorrevano la via Roma, via Libertà e via IV Novembre, sino alla chiesa di Montesalvo, dove, ai piedi del simulacro della Madonna, venivano deposti serti di fiori. La parola “lumina” trae origine dal termine luminaria, cioè falò; infatti, anticipatamente, sulla collina di Rabato, che si staglia all’orizzonte di Montesalvo, veniva acceso un gran falò che veniva alimentato giorno e notte nel periodo in cui il simulacro della Patrona era nella chiesa del Monte. Questo originale atto di omaggio alla Madonna della Visitazione si andò via via estinguendo nel corso dei secoli e non fu mai più ripristinato. Alla luminaria seguirono le “lumine”, alle quali partecipavano i pastori, i bottegai, le donne, i massari, i muratori e i minatori delle zolfare, mentre il falò fu sostituito dai lumini votivi che vengono accesi nella chiesa di Montesalvo.

La Madonna a ‘muntata’
: La seconda domenica successiva al 2 luglio, il simulacro della Madonna della Visitazione viene ricondotto in processione in duomo; questa prende il nome di “Madonna a muntata”, poiché il percorso del ritorno è in gran parte in salita. Così i “Nudi” tornano a ‘ncucciarsi’, cioè a portare a spalla la “nave d’oro” che inevitabilmente, come nella processione del due luglio, farà spuntare la cosiddetta “custana”, piaga più o meno profonda sulla spalla, a causa del gravoso peso del fercolo della Patrona e dei “bajardi” rudi e massicci. Mentre la vara si affaccia sotto il portico della chiesa di Montesalvo, vengono sparate le consuete salve da mortaio, fragorose ed assordanti. Poi, d’un sol colpo, la “nave d’oro” viene issata a spalla: il sole, che splende ancora caldo, ravviva in un sfavillio vivace lo zecchino della grande vara e riflette tutta la sua luce sugli ex voto che ricoprono interamente il simulacro della Madonna, rendendoli ancora più splendenti, quasi abbaglianti.

In questo gioco di luci, dove è predominante il giallo in tutte le sue sfumature, il volto della Madonna e del Bambino Gesù sembrano restare in penombra, perché riparati dal tetto della vara.
Nel tratto di strada che unisce la chiesa di Montesalvo con la piazza Europa, e quindi con via IV Novembre, i “Nudi” puntellano i loro piedi scalzi sull’asfalto rovente: ciò costituisce una sofferenza maggiore che stare con la vara in bilico sulle spalle, perché la ripida discesa favorirebbe lo spostamento del peso in avanti, se questo non fosse adeguatamente distribuito sulle gambe di ciascuno dei portatori.
Anche in questa processione della “Madonna a muntata”, ci sono numerose donne scalze che seguono la vara della Patrona per il tradizionale viaggio. La sfilata è aperta sempre dallo stendardo, sorretto con grande equilibrio dai soliti portatori. Questo stendardo consta di una pertica che funge da asta e che si unisce in cima con un asse trasversale cui è annodato un magnifico drappo di colore celeste. La parte inferiore dello stendardo ha un originale sagoma a coda di rondine ai cui vertici sono legati dei campanelli che risuonano ad ogni minimo movimento. Al centro del drappo vi è una grande effige, dipinta a mano, raffigurante la Madonna della Visitazione tra due angeli.
La fantasia popolare vuole che. giunti all’incrocio fra il viale Diaz, via IV Novembre e via Libertà, la “nave” diventi più pesante, perché la Madonna preferirebbe essere portata presso il santuario del SS. Crocifisso Abbandonato di Papardura, piuttosto che in duomo. In via Libertà e nel primo tratto di via Roma, meglio conosciuto con il nome di “Passu Signuri”, è un susseguirsi di ‘sarbe’ che vengono offerte dagli abitanti dei vicoli e stradine limitrofe, come un riverente omaggio alla Madonna. Così la processione e la “nave d’oro” vengono continuamente fermate dopo poche decine di metri, mentre molti “Nudi” sembrano soffocare a causa della massa di fumo che si riversa in strada, con il suo tipico sentore di bruciato, trasformando la via Roma in una polveriera.
Da piazza Alessi, la “Balata” di Castrogiovanni, sino al duomo, la processione sembra mutare ritmo perchè l’incedere dei “Nudi”, lento per la sopraggiunta stanchezza, a volte si fa rapido e scomposto costringendo le autorità, la banda musicale e la folla di fedeli, che seguono il corteo, a repentine rincorse dall’andatura piuttosto celere. Giunta in duomo, la processione si scioglie, il simulacro della Madonna della Visitazione viene esposto sull’altare maggiore, restandovi un’altra settimana ancora, mentre la “nave d’oro” viene conservata dietro il quadro di un altare della navata sinistra.
La domenica successiva, con una solenne cerimonia ed un Vespro di reposizione, la sacra immagine viene rinchiusa nella sua nicchia e i festeggiamenti in onore della Patrona di Enna si concludono tra canti e preghiere.

By Fabio Marino. L’importanza del rito: da individuo a cittadino nella condivisione di una sorte comune.

Il rito è una pratica che fonda e rinnova, nel suo perpetuarsi, l’identità comune del gruppo sociale che lo mette in essere e lo partecipa. Il rito religioso, più di tutti gli altri, è formato da una complessa e rigida struttura di simboli ad alto valore semantico che servono all’uomo per stabilire un contatto con le forze sovrannaturali che ne regolano l’esistenza.
L’individuo, impotente di fronte alla forza della natura, cerca attraverso il rito una relazione trascendente che lo protegga e lo aiuti a soddisfare i valori primari di cui necessita e che spesso lo tormentano: la salute, il nutrimento, la protezione, i rapporti di socialità, la morte.

Ogni rito si consolida nel tempo ma nel tempo stesso cambia e si ristruttura, a volte radicalmente, riscrivendo l’universo semantico dei simboli che lo costituiscono, più spesso solo parzialmente, variando il valore culturale di simboli e significati. Anche se il fine ultimo, stabilire un contatto tra l’umano e il divino, non cambia mai, le modalità con cui esso si esplica non sono statiche ma vivono e cambiano con l’uomo e le formazioni culturali a cui esso dà vita. Il rito stesso può essere considerato parte di quella, che in senso lato, viene definita “cultura”, ma la sua valenza è doppia, perché, oltre che per la ricerca del contatto ultraterreno, il rito ha un’altra importantissima funzione: stabilire e consolidare rapporti sociali duraturi e garantiti da un senso forte di identità collettiva.
In quest’accezione, il rito, e quello religioso più di ogni altro, è fondatore e regolatore di gruppi sociali organizzati. Non si tratta quindi solo do folklore o di momenti di festa, e tantomeno, solo, di pratiche religiose o sistemi di preghiera, ma della natura fondante del nostro essere uomini in mezzo agli altri, gruppi socialmente organizzati, comunità civili.

La festa religiosa, che sempre rappresenta un insieme complesso di pratiche e gesti antichissimi, di cerimoniali misteriosi e coloriti, ma soprattutto, di forti emozioni e partecipazione collettiva, ha un significato molto più profondo di quello che sembra. Essa è anello di congiunzione tra la natura umana e il mondo che gli sfugge, quello misterioso degli eventi incontrollabili della natura. È un modo di dare “senso” alla caducità dell’esistenza, è un porto salvo nel quale definire un proprio ruolo sociale d’appartenenza ad una collettività.
In questo senso il rito, e la festa religiosa che da esso è regolata, è parte di quell’ordine cosmico in cui l’uomo è attore principale, fatto di regole morali, naturali ed etiche, che alberga nella mente di ogni individuo e, senza del quale, ogni società lascerebbe il posto al caos.
La “festa” di Maria SS. Della Visitazione ad Enna, vista da quest’angolazione, oltre ad essere religione, cultura e folklore, è un vero e proprio rito di aggregazione. Ci aiuta a sentirci ennesi e assieme agli ennesi condividere la sorte che è stata e che verrà, quella che, attraverso il rito religioso (o pagano), cerchiamo di ingraziarsi creando un punto di contatto con l’universo mistico che ci sovraintende.
Ogni individuo sperimenta, nel corso della propria vita, molteplici forme di appartenenza (religiosa, territoriale, politica, familiare, di genere, sportiva, ecc.); ogni gruppo serve a definire la dimensione individuale e collettiva della sua identità. Infatti, la dimensione sociale di appartenenza ad un gruppo, che si sviluppa in relazione all’ambiente ed ai soggetti che ne costituiscono la comunità di riferimento, costituisce uno dei momenti fondamentali per il completamento di quel processo di consapevolezza della propria identità verso il quale l’uomo è sempre proteso. Momento che è successivo soltanto all’elaborazione della definizione dell’ “io” ed alla costruzione della “considerazione di sé”.
Spiegato in altri termini, senso di appartenenza significa sentirsi parte di un gruppo con il quale, e grazie al quale, possono essere sperimentate forme importanti di condivisione, di comportamenti, di modi di pensare, di valori e di atteggiamenti.

L’appartenenza, quindi, instaura un processo di identificazione, in cui la sfera dell’Io si identifica con il Noi, e permette di riconoscersi e di essere riconosciuti come membri di un gruppo. Ciò avviene, principalmente, attraverso l’assunzione di alcuni segni distintivi: lingua, usi, costumi, riti, credenze, valori e norme.
Poste queste premesse, considerare le celebrazioni in occasione della festa della Madonna della Visitazione quali semplici manifestazioni folkloristiche, ovvero quali esternazioni di fede cristiana, sarebbe assai riduttivo.
L’insieme di riti, cerimonie, usanze, dei simbolismi legati alle celebrazioni della festa della Madonna, costituiscono per ogni ennese cresciuto in questi luoghi un bagaglio culturale di fondamentale importanza, perché estrinsecano quel senso di appartenenza che innesca il processo di identificazione e di immedesimazione.

L’ennese anche nell’essere mero spettatore è sempre partecipe e attivo, ognuno, a suo modo ha un ruolo (ignudo, confrate, fedele, credente, autorità, organizzatore ecc …) ed è protagonista, in qualche modo, del rito; probabilmente questo spiega perché la festa di Maria SS. Della Visitazione è così sentita e partecipata dal popolo ennese, ed anche perché i molti immigrati fanno ritorno in città proprio in occasione delle celebrazioni cogliendo l’opportunità di riaffermare la loro appartenenza ad un gruppo, ad un popolo, nonché la loro stessa identità.

E conferma, soprattutto, il persistere di un rito, che ha accompagnato, tramutandosi, le comunità di questi luoghi fin da prima che qui giungesse il cristianesimo, che da secoli si tramanda e trasmigra (dal rito pagano in onore della dea Cerere a quello cristiano in onore della Madonna della Visitazione) con semplicità e capacità di adattamento, ma con estrema pregnanza per la cultura e per i valori condivisi del popolo ennese.

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