“Lazzaro non sempre può avere un nome”, o forse sì. A volte un nome, altre un numero. E nome e numero, nella nostra piccola provincia, possono essere accomunati dal paradosso di un cuore grande ma vuoto. Due storie che si sono succedute a distanza di pochi giorni e che hanno partorito atteggiamenti differenti da parte di autorità locali e strutture ospedaliere. Parliamo di Lampedusa, che ci arriva prepotentemente alle porte di casa coi suoi rantoli disperati, per quanto vogliamo girarle le spalle. Parliamo di Fatimah, la chiamiamo così la giovane ventenne nigeriana scappata più di tre mesi fa dal suo paese con un marito e una creatura in grembo. Un nome fittizio, che richiama la Madonna, perché lei è cattolica. Un nome molto frequente nella tribù Hausa, in Nigeria. Contrariamente a quanto si immagina, la giovanissima Fatimah è fuggita dalla disperazione puntando al suo Continente. Tre interminabili mesi di fuga, che si concludono a Lampedusa dopo un viaggio non certo facile. Dallo sbarco, per la gravida Fatimah comincia l’incubo: dapprima ricoverata in un ospedale più piccolo, per le complicazioni che la porteranno a partorire prematuramente viene trasportata d’urgenza a Enna. Di suo marito nessuna notizia, si saprà poi che è vivo, in una struttura di prima accoglienza, probabilmente pronto per essere rimpatriato. I dolori del parto non danno a Fatimah la tregua giusta per pensare. A soli vent’anni, il suo primo parto la devasta. Sola e trilingue in una struttura dove a stento si parla solo l’italiano. Quel parlato inglese, francese o nigeriano diventano una gabbia che ancora di più la isola tra bianchi camici “evoluti” e monolingue che, nell’ignoranza, si preoccupano solo di portarle via un bimbo troppo prematuro per farcela. Fatimah non sa se sta bene, se è maschio o femmina. E non lo saprà mai, perché tutto viene affidato al linguaggio non verbale, al gesto meccanico che ha trasportato un piccolo cadavere in camera mortuaria. Giace nel letto la povera disgraziata, con le coperte fin sulla testa a celare le lacrime che versa copiose. Fatimah riceverà una traduzione di un Padre Nostro, da recitare in memoria di quel figlio (o figlia) mai conosciuto, da parte di una psicologa che per caso si trova in ginecologia in vesti di paziente e che – bontà sua – mastica l’inglese abbastanza bene. Della piccola vita nata e morta nella patria di Proserpina resta solo un numero, che assieme a quelli delle dieci salme (siamo alla seconda storia) della tragedia consumata il 3 ottobre e tumulate qualche giorno fa ad Assoro, danno la misura dell’incapacità collettiva di fronte alla questione sbarchi che è ben più longeva. Se da un lato la piccola comunità assorina opta per la solidarietà fattuale, con una degna sepoltura da dare a dieci poveri disgraziati; dall’altro è desolante notare come questo sia stato un caso sporadico, almeno da noi. Lunedì faranno i funerali di Stato. Quelli che Letta annunciò lo scorso 9 ottobre, in presenza di Alfano e Barroso. Mi chiedo: che funerali di Stato saranno, senza le salme tumulate in forma anonima e sbrigativa già cinque giorni dopo quella conferenza stampa? Numeri smistati qua e là. Facile e pressappochistico parlare di Lampedusa come porta di una fantomatica Europa, un alibi per lavarsene le mani, nell’incapacità di far fronte a un problema che esiste da almeno venti anni. Venti lunghi anni fatti di sbarchi, di anime sperse tra i flutti e di vite segnate dal terrore. Venti anni in cui Lampedusa è sempre stata al proprio posto, in Italia. In Europa. Dovevano scapparci parecchi morti per “scuzzuliarci” tutti e arrivare alla conclusione che, forse, risolvere la faccenda con una Bossi – Fini (oggi Bossi – Grillo) è impossibile e assurdo. Assurdo pensare di punire col reato di clandestinità chi sta scappando da fame, guerra e povertà. Assurdo ancor più punire chi soccorre. Insomma, se in mare l’unico reato che si possa compiere è l’omissione di soccorso, la legge in questione punisce chi non si macchia di questa colpa. Arguti! Le polemiche restano, gli sbarchi continuano. Lampedusa è sempre lì, coi riflettori spenti ormai. La passerella delle istituzioni è finita del resto. I lampedusani stanchi si uniscono alla voce spezzata del sindaco, Giusy Nicolini, che avrebbe di certo provveduto a fare un funerale di paese se avesse saputo prima della tumulazione anonima e sbrigativa delle vittime. Uomini, donne e bambini, tutti contrassegnati da un numero neanche fossero scatolame della peggiore qualità. Maroni dal canto suo, tuona: “La macroregione del Nord dice no ai clandestini!”. Non perde occasione, il terzo nano più famoso d’Italia (preceduto solo da Silvio e Renato), per propinare fantasie di terre fatate e popolate da elfi, padani ariani, mucche ed elmi cornuti. Ha la memoria corta Bobo, perché clandestini siamo tutti. Noi, siciliani, che con la valigia di cartone ci stiamo ritornando, pronti a partire alla volta di mete nuove (o vecchie da rivisitare); i nordicissimi veneti, già protagonisti di un’antica diaspora, quando il Veneto era solo paludi ed insetti e nient’altro. La differenza è che noi, da sud a nord, scappiamo da ricchi epuloni che continuano a banchettare sulle nostre schiene e ci sentiamo a pieno titolo cittadini del mondo. Loro, sti clandestini che “che sono venuti a fare?” sono cittadini, magari anche laureati e specializzati, annichiliti da politiche terzomondiste perpetrate sempre da quei ricchi epuloni di cui sopra, gli stessi che si accompagnano a gente del calibro di Deres Araya, a capo di una comunità eritrea e da tempo residente in Italia, che risultano i finanziatori del regime eritreo, uno dei più sanguinari d’Africa (così denuncia Mussie Zerai, sacerdote e presidente dell’associazione Habeshia che assiste i profughi eritrei in Italia, in uno scritto alla ministra Kyenge). Quindi, se non erro, con questa legge puniamo chi fugge da situazioni di cui noi stessi siamo conniventi. Allora, è vero quanto ha scritto padre Salvatore Minuto, il prete di Assoro, dopo la sepoltura alle anonime salme, “Lazzaro non sempre può avere un nome. Un nome però possono averlo, oggi, i ricchi epuloni e quel nome può esssere il nostro”. Quel che sfugge all’attenzione di Maroni e di tutti quelli come lui, con la poca voglia di approfondire la questione, è che le migrazioni verso l’Europa sono solo una micragnosa parte, mentre le migrazioni sud -sud la fanno da padrone, pur sfuggendo ad attente valutazioni. I flussi di migrazione più forti sono e rimangono all’interno del continente africano, spesso alla ricerca di una terra da coltivare o comunque in cerca di lavoro. Lampedusa giunge al termine, come ultimo baluardo di una disperazione inconsapevole che ormai le prova tutte e che spesso si prefigge quella tappa solo come passaggio intermedio, alla volta di mete che non sono l’Italia. Immaginate le stesse sorti per i nostri giovani disperati nostrani, con la stessa valigia che avevano i nostri nonni. Capirete che siamo tutti clandestini, tutti sullo stesso barcone. Alla luce di questo, il prossimo 21 ottobre, in occasione di pseudo funerali senza salme e con qualche sbrindellato tricolore, avrò modo di vergognarmi di essere italiana.
Alessandra Maria
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