Ci vuole un bel coraggio ad essere cristiani. Professarsi cattolici comporta sempre un rischio. La testimonianza cristiana espone ad una assunzione di responsabilità, che sempre più spesso mostra il suo lato più affannato e incoerente. Nei Paesi liberi, come l’Italia, dove la radice culturale è improntata sulla cristianità, il battesimo è un fatto naturale e quasi spontaneo. Si può andare a messa, frequentare i gruppi parrocchiali, fare il segno della croce prima di inziare a mangiare, pregare il rosario, parlare di Dio in pubblico. Tutto questo liberamente, senza subire condanne. Eppure ci si vergogna di testimoniare la propria fede. Si teme di essere giudicati in un certo modo. Quanta ammirazione, invece, per la dimensione meditativa del buddhismo, per le espressioni di fede più esotiche e lontane, o per quel fare deciso che esprimono i musulmani con la loro preghiera in qualsiasi luogo.
La libertà fa pensare che tutto sia scontato. Quanti, in altre parti del mondo, sarebbero felici di gridare la loro fede cristiana. In Iraq, in Sudan e in tantissimi altri Paesi del mondo, a pesare sulla testa dei cristiani è la condanna a morte, altro che pregiudizio, altro che vergogna. Lì essere cristiani è proibito e le condanne si affrontano. Il caso Meriam ce lo dimostra. Non ha rinnegato Cristo nememno davanti alla condanna a morte. Poteva convertirsi all’islam per salvare la sua vita, ma la sua fede non è stata barattabile.
In Iraq gli islamisti marcano le case dei cristiani con il simbolo ن che corrisponde alla lettera latina “N”, iniziale di Nazareno, come i nazisti fecero negli anni Trenta dipingendo la stella di David sulle vetrine degli ebrei. I cristiani iracheni vengono perseguitati nella totale indifferenza del mondo. Non c’è scelta: conversione, fuga, o morte.
Venerdì 25 luglio si terrà una giornata di preghiera e digiuno per i fratelli cristiani perseguitati per la loro fede. I cristiani di tutto il mondo sono chiamati a mostrare il simbolo ن nelle reti sociali.
Valentina la Ferrera
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